
C’erano stati 6 mesi per riflettere sulla nuova legge elettorale: tanti ne sono passati dal giorno dopo il referendum costituzionale. Ma come nelle tappe di pianura al Giro d’Italia, una volta tenute a bada le fughe si gioca tutto negli ultimi chilometri; con la squadra della maglia rosa in testa, a controllare il gruppo per evitare scossoni in classifica. È più o meno quello che sta facendo a Montecitorio il Partito democratico, forte di alleati (i 5Stelle temporanei, Forza Italia chissà) che hanno il suo stesso obiettivo: ne sta venendo fuori una legge anonima, una di quelle che potrebbero essere ricordate per il numero, perché la paternità è condivisa tra tanti e gli stessi padri non sembrano andarne troppo fieri.
Non esiste in natura una legge elettorale perfetta, neppure quelle compiante. Con il maggioritario guadagni in governabilità, ma perdi in rappresentatività; con il proporzionale, rappresenti tutti, ma ti condanni alle grandi coalizioni. Con le preferenze, apri al rischio di voto di scambio; con i listini bloccati, fai eleggere nomi che non metteranno piede nel proprio collegio. Con l’uninominale secco hai un buon compromesso, ma in un sistema tripolare tieni quasi sicuramente il terzo polo ai margini del Parlamento. Non è un caso che le ultime leggi, dal Porcellum al Mattarellum, abbiano cercato la contaminazione tra sistemi diversi; e quella che si sta discutendo ora, per quanto decisamente migliorabile, non fa eccezione.
Hanno ragione tutti, e tutti hanno torto. Si prenda, ad esempio, il dibattito interno al Pd sulla sua vocazione maggioritaria: ha ragione Veltroni, nel dire che con il proporzionale si abdica all’obiettivo di governare da soli, e ha ragione Orfini, nel ricordare che da soli non si è mai governato nemmeno ai tempi del Porcellum. Ha ragione chi afferma che la nuova legge mette insieme le esigenze di rappresentanza e governabilità, e ha ragione chi obietta che alla fine verrà fuori un Parlamento non molto rappresentativo né particolarmente governabile, a meno di grandi coalizioni.
L’unico motivo serio di questa intesa, d’altra parte, è che così nessuno stravince e nessuno esce sconfitto prima di misurarsi con le elezioni: sulla pelle dei partiti più piccoli – destinati a unirsi in grandi listoni, per poi eventualmente separarsi una volta superato lo sbarramento – ognuno dei tre poli può fare campagna convinto di entrare nel governo che verrà. Perché l’unica certezza, a meno di trionfi difficilmente ipotizzabili, è che il primo esecutivo della diciottesima legislatura sarà un governo di alleanze: che sia Renzi-Berlusconi, oppure Grillo-Salvini, o chissà cos’altro, il proporzionale corretto obbliga in genere a un accordo. Quale sarà, però, lo diranno solo i numeri del voto, probabilmente in autunno.
Non è la data delle elezioni politiche, in realtà, l’incognita più grande di questo momento, ma il modo in cui si arriverà alla crisi di governo. Una cosa è mettere sul piatto una legge importante – la cittadinanza ai figli degli immigrati, per esempio, o il fine vita, o la riforma del processo penale – e giocarsi l’ultima battaglia su quella, anche a costo di perdere un po’ di consenso; un’altra è decidere in sede extraparlamentare, come fece la celebre direzione del Pd con Letta, che il destino di Gentiloni è segnato, nonostante non esistano motivi oggettivi per farlo fuori. A Renzi la prima volta andò bene, ora c’è il rischio serio di apparire agli elettori – anche ai suoi – come un cannibale avido e spietato, desideroso solo di tornare a dare le carte dopo qualche mese di Purgatorio.
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