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Gravner: «L’inchiesta sul Sauvignon apre un futuro migliore ai giovani»

«Il vino aromatizzato è una prassi diffusa. L’ho provato in California nell’87 e ho deciso che non era per me». L’appello del maestro: «Ai vignaioli che verranno consiglio di studiare bene filosofia molto piú dell’enologia»

2 minuti di lettura

PORDENONE. «Nel fare i vini bisogna avere etica: non voglio ora giudicare i viticoltori coinvolti nella vicenda, ma io per “coltivare” i miei ho sudato».

Parole di Joško Gravner, produttore di vini di qualità ad Oslavia con metodi naturali che risalgono agli antichi romani, riguardo all'inchiesta Sauvignon connection che sta sconquassando il vigneto Friuli, con aziende produttrici che secondo le ipotesi d’indagine avrebbero utilizzato aromi alimentari nel vino celebre in tutto il mondo.

Parole rilasciate a margine dell'incontri di ieri a Pordenonelegge. Non a caso ha utilizzato il verbo “coltivare”, visto che rimanda alla sua filosofia produttiva raccontata nel libro “Coltivare il vino” scritto su di lui da Stefano Caffarri del Cucchiaio d'argento, pure egli presente nell'incontro organizzato insieme alla Condotta Slow food del Pordenonese e moderato da Giulio Colomba.

«Sono comunque grato perché questa inchiesta – ha aggiunto Gravner – permetterà un cambiamento di mentalità e un nuovo inizio a tutti i giovani viticoltori, ai quali consiglio di studiare piú la filosofia che l'enologia, la quale ci ha portato in tanti Paesi a queste condizioni. Pensate che io il primo Sauvignon con aroma l'ho assaggiato nel 1987 in California e offrendomelo anche si vantavano: io lí decisi che mai avrei fatto parte di quel mondo».

Ora il suo presente è fatto di viti autoctone, coltivate con passione in vigneti in cui ha piantato anche altri alberi per migliorare il microclima e la biodiversità, con pure pozze d'acqua tra i filari e non piú di 6-7 grappoli per pianta.

Il suo segreto è l'attesa. «Devo ancora iniziare a vendemmiare – ha aggiunto – e potrei arrivare a farlo anche a ottobre inoltrato: un giorno senti che è giunto il momento di procedere, ormai non analizzo piú il grado di zucchero degli acini, mi lascio guidare dalla natura. Non agire è meglio che agire, bisogna aspettare e vedere crescere un vino come un figlio».

E i suoi vini, in antiche anfore d’argilla fatte con la stessa terra dalla quale traggono nutrimento le viti, “crescono” per sette anni prima di conoscere la bottiglia, dove li attende un altro po' di riposo.

«Mi sono infiltrato nel suo mondo per poterlo raccontare – ha spiegato Caffarri – realizzando alla fine dei fotogrammi a parole che, arricchiti dagli scatti di Alvise Barsanti, raccontano anche l'anima di questa terra di confine tra Italia e Slovenia. Il suo è un vino che fa bene alle persone».

Tra i ricordi del nonno durante la Grande guerra, particolarmente dura a Oslavia che era sul fronte di fuoco, e del suo cammino di sottrazione per arrivare all'attuale modus operandi, il viticoltore ha rimarcato il concetto della naturalità.

«Dico basta ai trecento additivi che si possono utilizzare nella realizzazione – ha concluso Gravner – e alla filtratura che elimina lieviti, batteri ed enzimi che invece sono indispensabili nella crescita del vino. Bisogna tornare all'acqua pura, ai metodi naturali dei romani, eliminando anche la concimazione chimica che è dannosa per i terreni come la droga per l’uomo».

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