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Morì il principe, non Totò

Cinquant’anni fa, il 15 aprile 1967, l’addio al nobiluomo che creò la maschera italiana più amata del Novecento

3 minuti di lettura

di GIAN PAOLO POLESINI

Il 15 aprile 1967 non morì soltanto Totò. Ad accompagnare chissà dove (lassù, sicuramente) quel buffo ometto coi pantaloni a zompafosso e con i lacci da scarpe annodati al collo della camicia, quella mattina triste, c’era il principe Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. Inevitabilmente morirono entrambi. Lui, il comico/nobiluomo, insisteva nel tener distanti i due: la maschera lasciata nella stanza del disbrigo quando il sangue blu rientrava a casa. E son già cinquant’anni che se ne sono andati.

E ci siamo detti: bisogna tirar fuori il meglio per onorare un Re. Che già in vita non ebbe chissà quali onori. Totò fu costretto a crepare a sessantanove anni - complice un cuore provato - per far cambiare idea ai critici, che lo distrussero sin troppo per quei filmetti prodotti a cottimo, oggi amatissimi, ieri additati a totoate, come dire non certo il cinema dei Visconti, dei Fellini, dei De Sica.

E nel fine corsa l’attore cercò con rabbiosa insistenza il film della riscossa, sperando che un regista di culto lo cercasse. Finché bussò al portone Pier Paolo Pasolini, che salì in appartamento con Ninetto Davoli. Il poeta stava elaborando Uccellacci uccellini e pensò al napoletano per il suo Totò Innocenti/Frate Cicillo. E qualche penna celebre si accorse di lui proprio nell’opera che incassò meno, molto meno, di qualunque totoata. Destino irriverente, a volte.

Immortale Totò lo era, ancor prima della chiamata di Pier Paolo, ma non lo sapeva.

Curiosi tutti quei fregi nobiliari, vero?, che avete scorso sorridendo poche righe fa.

Eppure il bambino Antonio nasce poverissimo a Napoli nel quartiere Sanità. Il 15 febbraio 1898. Al momento, un padre vero e proprio non c’era. O meglio, c’era, ma stava in disparte. Al marchesino Giuseppe de Curtis, che s’innamorò - ricambiato - di Anna Clemente, fu vietato di metter su famiglia. Sapete come funzionava, allora. Ecco. E soltanto quando il vecchio papà morì, Giuseppe riconobbe il figlio Antonio dotandolo di blasone. Ma non di denaro. Non stava messo bene in banca, neppure lui. Da qui l’ossessione di un’esistenza intera: affastellare titoli su titoli. Un desiderio che costò a Totò una montagna di soldi.

Disse Einstein, a proposito del talento: «L’un per cento è ispirazione, il 99 è traspirazione». Ovvero: senza sudore non arrivi da nessuna parte. E il giovane Antonio faticò assai sui piccoli palchi prima napoletani, poi romani. Seguendo le utili tracce di Giancarlo Governi (il biografo più accreditato del principe) ricostruiamo spicchi d’esistenza che saranno fondamentali all’omino gentile per conquistare il mondo. Il fuoco dell’arte ardeva nel ragazzo, qualcuno se ne accorse e, pian piano, l’unicità dei gesti e delle movenze travolse il monotono senso dell’avanspettacolo, e abbattè pure chi Totò cercò d’imitare: Gustavo De Marco. Tant’è che sui cartelloni si assottigliò il nome di De Marco e s’ingigantì quello di Totò.

Amava le donne, il neo attore di rivista. Tantissimo. Ne sceglieva una a sera e la ricopriva di fiori e di proposte.

Chissà per quale maledizione i prescelti di fama pagano eccessivi pegni nel loro cammino verso l’Olimpo. Sottrazioni necessarie, forse. Chissà.

Una delle tante femmine accalappiate, Liliana Castagnola, pure lei del ramo spettacoli e affini, lo inchioderà più seriamente di altre in un amore passionale sì, ma troppo opprimente per i gusti del Casanova. Quell’addio improvviso costò caro a Liliana, che una notte se ne andò in silenzio imbottita di barbiturici. Totò non guarì mai da quell’incubo. Come scrisse decenni e decenni dopo Josephine Hart nel suo splendido libro: «Se subisci un danno sei costretto a sopravvivere». E Totò sopravvisse.

Finalmente il cinema si accorse di quel buffo individuo e lo inghiottì. Il primo film Fermo con le mani andò maluccio, ma poi il de Curtis impose il suo Totò e, nonostante le totoate (novantasette per la precisione) il mondo si chiese se non fosse nato un altro Chaplin. I registi con lui impazzivano davvero. Al guitto bastava uno straccio di copione, il resto lo allestiva a cinepresa accesa. Come accadeva in teatro. Poche spalle arginarono l’urto scenico: Mario Castellani, Nino Taranto, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Carlo Croccolo. La critica, però, non deglutì mai le opere sue. Fu più offensiva che benevola. Le pellicole incassarono miliardi, restando comunque di serie B.

Nacque la figlia Liliana (non certo un nome a caso) dalla bella e nuova compagna di cammino, una certa Diana, sedicenne conquistata a suon di rose. Divenne ricchissimo, abitò case lussuose, distribuì denaro a chiunque ne avesse bisogno, si fece accompagnare dall’autista, che non poteva superare i sessanta orari, e, a parte la gelosia morbosa per la figlia, nulla sembrava annebbiare né la fama né l’animo.

Nuovamente malasorte. Una sera a teatro s’accorse di non vedere più. Già un occhio lo perse in gioventù, si oscurò pure l’altro. Tornò in scena e concluse lo show, guidato dal magnifico istinto che aveva. L’indomabile riprese la vita del cinematografo, girò un sacco di film, s’innamorò di Silvana Pampanini (ma rimasero amici) comprese che la moglie Diana aveva altri amori da soddisfare e si ritrovò da solo. Incontrò Franca Faldini e i sedici anni successivi li visse accanto alla donna che lo vide morire, ma non potè assistere alla benedizione della salma in quanto solo concubina e non consorte. E, dalla mattina del 15 aprile 1967, il principe de Curtis divenne per sempre Totò.

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