“Quella solita domenica: la gita al lago di Verzegnis e il pranzo coi cjarsons”
Il racconto di Marco Balzano ambientato in Friuli, vincitore del premio della Regione a Pordenonelegge. La consegna del riconoscimento sabato alle 11 allo Spazio San Giorgio
MARCO BALZANO
Lo scrittore Marco Balzano ha vinto la terza edizione del Premio letterario Friuli Venezia Giulia “Il racconto dei luoghi e del tempo”, istituito dalla Regione, con un racconto lungo pubblicato da Italo Svevo Edizioni in coedizione con Fondazione Pordenonelegge.it (in libreria da ottobre). Il premio sarà consegnato al festival, sabato 17, alle 11 Spazio San Giorgio. Ecco un’anticipazione del racconto, per gentile concessione di editore e Pnlegge.
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Davanti casa, con le chiavi già in mano, non so che mi è preso, ma mi ha fatto paura entrare. Si è irrigidita tutta la schiena, ho dovuto mettermi le mani sulle reni. Avevo i capelli appiccicati alla fronte e mi è salita una rabbia enorme per non avergli chiuso gli occhi. Avrei dovuto tirare un pugno a quel me, dico.
L’ultima chiave ha girato nella toppa, ma a quel punto avevo già fatto dietro front e sbattendo il cancello sono tornato alla macchina. Mi è venuta voglia di andare verso Chiaicis e lo avvertivo dal dolore alla schiena che si allentava che era la cosa migliore da fare. Avrei potuto elencare a memoria i fatti di quella loro domenica, immutabili da sempre.
Primo, una puntata al lago di Verzegnis, dove negli anni d’oro andavano a ballare con altre coppie di amici e dove adesso facevano lunghe passeggiate aiutandosi coi bastoni. Poi, all’ora di pranzo, ripartivano alla volta di Villa per una visita alla pieve di San Martino, che è la ragione del mio nome.
In quella chiesa da piccolo mi divertivo a saltare con un piede solo sulle lastre di marmo dello stesso colore, finché mia madre, con un dito sulla bocca a dirmi silenzio, non mi portava per mano a recitare l’Angelo di Dio in ginocchio sulla panca. Per chiudere, il pranzo coi cjarsons all’osteria di fronte.
Non c’è mai stato verso di cambiare posto, neanche quando – negli ultimi anni – la cucina e l’ambiente si erano fatti un po’ troppo sofisticati per i gusti di mio padre. Tutto sapevo di quelle domeniche sempre identiche, meno che quella fosse l’ultima e che al solito tavolo per due non sarebbero arrivati a sedersi.
Quante volte mi avevano costretto a quel rito? E chi ero io allora, oltre a un brufoloso liceale che se non usciva a ubriacarsi da Guido restava in casa a tradurre Truman Capote anche la notte di Capodanno? C’è ancora un nesso tra quel che ero e quel che sono? E loro due? Erano ancora mia madre e mio padre o erano una coppia di settantenni come tante altre, che sopravvive al mondo e a sé stessa con silenziosa dignità, aggrappandosi come un albero alla certezza di una radice che per loro si chiamava Ampezzo? Lì erano nati, lì si erano conosciuti e sposati, lì avrebbero voluto che rimanessi anche io.
Avevo intenzione di fermarmi sul luogo dell’incidente, così ho guidato a sessanta all’ora senza perdere di vista il guardrail. Le montagne attorno erano più nitide che mai e quelle nuvole bianche ostinatamente immobili sulle cime rendevano ogni minuto più crudele. In lontananza tra un sentiero di faggi saliva una fila di camion da cantiere che sembravano formiche, pazienti e instancabili.
Ho provato a ridurre a dimensione di formica i monti, le nuvole incastonate nell’azzurro, la strada, il burrone che la costeggiava, le automobili, la mia persona, il volante, i corpi dei miei genitori sotto le lenzuola bianche dell’obitorio. L’ho fatto per rimpicciolire l’importanza di esistere e l’ineluttabilità di soffrire per quelle vite troncate, in nulla diverse dalle formiche schiacciate da un piede distratto. Non ha funzionato.
O forse ho perso la concentrazione, perché d’improvviso ho visto il guardrail spaccato, su cui due operai in tuta gialla erano già al lavoro. Ho frenato ma alla fine ho ridato gas e ho proseguito anch’io fino al lago.
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