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L’intervista

Mauro Maur, la tromba preferita da Fellini: «Un artista unico, ho suonato al funerale»

Il musicista, che vive a Villa Vicentina, ricorda la collaborazione con Morricone: «Diceva che il mio suono era potente»

GIAN PAOLO POLESINI
2 minuti di lettura
Il musicista Mauro Maur e la moglie Françoise de Clossey 

Ennio Morricone captò dosi massicce di talento appena lo sentì suonare la tromba. Mauro Maur, allora, aveva una ventina d’anni. Da Trieste se ne andò diciassettenne.

«Mio padre era un piccolo armatore e sognava il figlio comandante, il musicista non rientrava nelle ambizioni famigliari», ricorda lui tornato a vivere in Friuli, a Villa Vicentina, «inizialmente per stare vicino a mamma, poi io e mia moglie Françoise ci siamo innamorati della casa e della zona, un duplice buon motivo per restare».

Da quando lasciò le rive triestine alla fine dei Settanta all’altro giorno, si fa per dire, Maur ha demolito qualunque record per un artista: prima tromba ovunque abbia suonato — dall’Opera di Parigi a quella di Roma fino ai Solisti Veneti — adorato da Ennio, che lo calamitava negli studios per ogni colonna sonora di film che firmava (oltre un centinaio quelle incise da Mauro), stimato da Fellini e dalla Giulietta Masina, con la quale spesso si accompagnava a teatro, insomma il grande cinema dell’altro secolo ricercava quel suono che «pareva fuoco», diceva Morricone.

C’è sempre un buon motivo per cominciare a maneggiare uno strumento. Ci racconti il suo.

«Trovai una tromba al ricreatorio. Non avevo idea di come usarla, ma sapevo che bisognava soffiarci dentro. A otto anni sperimenti senza timori. Ne uscì una musica e qualcuno si stupì. Solitamente la prima volta domina il suono dell’aria vuota, per farla funzionare ci vuole tempo».

E se non l’avesse trovata?

«Mai e poi mai l’avrei cercata».

Quel che si definisce destino.

«Direi di sì».

In casa com’era vista e trattata la cultura?

«Mia madre mi portava all’opera e per conto mio guardavo parecchi film. Adoravo “Quarto Potere” di Orson Welles».

Andò a lezione, quindi?

«Studiai al conservatorio come privatista, mi perfezionai a Lubiana e una sera salii sul Simplon Express destinazione Parigi».

Ah. Così, d’istinto?

«In realtà il sogno sarebbe stato iscrivermi al Conservatorio National Superior de Music. Sei posti, 136 candidati. Alla sera mi sedevo sui gradini della scuola sapendo che verso le 20 sarebbe passato il grande Pierre Thibaud, un’icona mondiale. Lo convinsi ad ascoltarmi. Stavo per uscire dallo studio dopo l’audizione e lui mi disse: “Ci vediamo domani?”

D’estate raggiunsi Nizza per uno stage e riuscii a passare l’esame. “Non hai una borsa di studio”?, mi chiese Thibaud. “No”, gli risposi. “Ve bene, verrai a vivere da me“, decise così. Poi vinsi un concorso e diventai prima tomba all’Opera di Parigi».

Avrà visto passare sul podio quel che di meglio non si poteva chiedere, immagino.

«Oh, certo. Seiji Ozawa, Leonard Bernstein, Pierre Boulez. Ogni volta era un incanto, mi creda».

Poi, però, scelse Roma…

«Nove anni a Parigi furono sufficienti a farmi assorbire tutta l’eccellenza possibile e dopo l’esperienza di Lilla scesi a Roma perché sentivo che sarebbe successo qualcosa».

Come conobbe Morricone?

«Mi chiamarono per una registrazione di una colonna sonora. Trovai uno spartito sul leggio e suonai. Buona la prima disse il signore che stava sul podio. Era lui, ma io non sapevo chi fosse».

Quindi?

«Quindi Ennio mi fece capire che io sarei stato perfetto per la sua musica. “Quel suono potente mi piace, ha personalità”, mi diceva.

Il titolo della prima pellicola, se lo ricorda?

«Credo fosse un film con Liv Ullmann. Ricordo invece benissimo una litigata fra Zeffirelli e Morricone per le musiche dell’Amleto, il film del 1990. A causa di una ritmica che al regista non piaceva. Cose che succedono».

E Fellini?

«Andavamo a prendere il caffè in piazza del Popolo a Roma e lui si divertiva molto quando parlavo in dialetto triestino. Adoravo “Sceicco bianco”, e suonai per “Ginger e Fred” e per “l’Intervista”. Un giorno gli chiesi di Leopoldo Trieste e lui mi disse: guarda che è pugliese, mica triestino come te!

Gli volevo bene, era un artista unico. Suonai al suo funerale. Mi emoziono soltanto a ricordarlo. E Giulietta Masina mi disse: non fare “La Strada", quella la tieni per me, fra non molto. E così successe».

Come mai vivete a Villa Vicentina, mi scusi?

«Per la casa. Magnifica e adatta a ospitare un pianoforte a coda, un organo che il Vaticano ci donò e la tastiera elettronica che fu usata da Ray Charles nel film“The Blues Brothers”.

Ma va?«

«La teniamo come una reliquia».

Con sua moglie Françoise de Clossey, straordinaria pianista, vi esibitein tutta Italia. Che repertorio avete?

«Tutti chiedono sempre quello: Rota, Piccioni, Morricone. Mi spiace di non aver mai conosciuto Rota. Fellini fu grande anche grazie a lui».

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