L’Istria dal 1943 a oggi: la storica Mila Orlić racconta l’identità di confine
La studiosa propone una ricostruzione fatta di zone grigie. Un saggio che mette in crisi i luoghi comuni e farà discutere
ANDREA ZANNINI
La storia dell’Istria negli anni del Regno d’Italia, della guerra e della nascita della Jugoslavia è stata presentata come una vicenda fatta di conflitti dualistici in bianco e nero. Italiani di città contro slavi contadini nel Ventennio, jugoslavi di qua e italiani di là sotto il comunismo titino. In Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi (Viella 2023), la storica Mila Orlić propone invece una ricostruzione fatta di «tante zone grigie, in cui affiorava la fluidità di identificazioni e appartenenze politiche o nazionali o, ancor di più, degli orientamenti e degli atteggiamenti dei singoli individui».
Sono gli istriani, prima ancora che l’Istria o lo Stato nel quale la penisola fu ricompresa, al centro del libro. Una popolazione dalle infinite varianti etniche e linguistiche interne, continuamente alimentata nei secoli da immigrazioni. Dopo aver fatto parte della Serenissima e dell’impero asburgico, sotto il fascismo l’Istria fu sottoposta a una nazionalizzazione forzata, con il divieto di usare i dialetti slavi, l’esclusività della scuola in italiano e l’italianizzazione dei cognomi.
Dopo il 1943, il tentativo del Partito comunista di descriverne la popolazione come “croata” rappresentò una forzatura contraria ma simmetrica: in molte aree l’istro-veneto era ibridato con parole slave, senza alcuna parentela con le lingue standard italiana o croata.
Terminata la guerra, l’Istria si trovò sprofondata in una crisi economica devastante e al centro di una contesa di politica internazionale. Mentre Trieste, cioè la Zona A, si riempiva grazie agli Alleati di generi alimentari e di consumo, la popolazione istriana soffriva letteralmente la fame.
L’avvio di una politica collettivista, il razionamento dei generi alimentari e l’ammasso degli stessi alienarono i favori dei contadini, ostacolando il processo di nazionalizzazione in senso croato/jugoslavo delle masse contadine.
Il censimento promosso dal nuovo potere nel 1945 utilizzò un criterio diverso da quello italiano del 1921 o da quelli asburgici, basati sull’identificazione lingua = nazionalità. Sapendo che l’italiano, e le sue varianti, erano l’idioma più diffuso e volendo ridimensionare la presenza del “gruppo” italiano per escludere il ritorno dell’Istria all’Italia, il computo fu svolto sulla base dell’autodeterminazione dei singoli. I croati risultarono il 70% circa della popolazione, gli italiani il 30%.
Ciò che la storiografia solo recentemente ha iniziato ad osservare è che molti rifiutarono una classificazione in base a criteri predefiniti di nazionalità: un buon 30% della popolazione, ad esempio, nel distretto di Buie.
Con il Trattato di Parigi si aprì nel 1947 per tutti gli istriani che parlavano italiano, il che dopo vent’anni di fascismo non era difficile, l’opzione per la cittadinanza italiana, che significava trasferirsi in Italia. Furono circa 250 mila coloro che scelsero nei dieci anni successivi tale strada.
Su questo punto Mila Orlić produce una sostanziosa documentazione sulla motivazione economica di tale esodo: rispetto alla povertà materiale e produttiva dell’Istria, nella devastazione del dopoguerra l’Italia prometteva un destino diverso.
Sostenendo poi, con ragione, che si è eccessivamente insistito sul tema della violenza con cui si impose il regime comunista, Orlić cade però nell’eccesso opposto: praticamente non ne parla. Se non per sottolineare come le foibe siano servite per dar vita, dopo la caduta della Federazione jogoslava, a una autorappresentazione basata sul mito dell’italianità dell’Istria.
Pur non avendo la conoscenza delle fonti che la storica italo-croata ha, ci sembra che sia la pratica della violenza politica che si dispiegò nell’Istria del dopoguerra, e che derivava dalle esperienze della guerra antinazista, sia l’avversione per il sistema comunista che veniva impiantato nella nuova Jugoslavia, siano state invece componenti rilevanti nella scelta che spinse molti istrani ad abbandonare case e terre abitate da secoli.
Così, la ricostruzione dei torti subiti dai profughi istriani in Italia negli anni ’50 e ’60, soprattutto nelle regioni dove il Pci era forte, e dove venivano descritti come «fascisti in fuga dal paradiso socialista», un tema al quale Mila Orlić ha dedicato ricerche innovative e coraggiose, finisce per acquisire uno spazio considerevole. Dando quasi l’impressione che con gli “esuli” si sia comportata peggio la Repubblica italiana che la Federazione jugoslava.
Come ci ha insegnato la letteratura, e come continuano a indicarci i drammi del presente, nelle aree di frontiera l’identità è sempre multipla, sfuggente, contingente. Serve piuttosto come forma di relazione, o come scelta di vita, più che come dichiarazione di appartenenza.
Questo di Mila Orlic è un libro destinato a far discutere perché mette in crisi molti dei luoghi comuni con cui si è rappresentata la storia dell’Istria e degli istriani.
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