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Teatro nostro che brilli nel buio

Oggi si celebra la giornata mondiale del

rita italiano
Aggiornato alle 2 minuti di lettura

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Le giornate mondiali sono così. Talvolta te le ricordi autonomamente. Talvolta no. Dipende dalla situazione. Dipende da come capita. Se la giornata mondiale la senti nominare alla radio. Se Google ci fa il doodle. Se passa un’agenzia, una tra dieci milioni. Dipende, appunto. La giornata del Teatro, per chi lo ama davvero, può avere la modalità speciale d’essere scritta a mano sul calendario ogni anno. Già quando a gennaio arriva il calendario nuovo, l’annotazione rende subito indimenticabile la data. 27 marzo: Giornata mondiale del Teatro. Quasi un rito propiziatorio. Per partire bene. Per sincronizzarsi giusti. Per sentirsi in confidenza con gli elementi fondamentali del Teatro, quegli scabri oggetti artigiani di legno, corda, cartapesta, e quella polvere speciale, quella delle poltroncine, quella dei vecchi sipari. Facendosi sempre la stessa domanda. Che cosa c’è di tanto forte, di tanto unico in quelle stanze piene di sedie da una parte e vuote di parete dall’altra? La compresenza fisica, si dice con sicurezza. Spettacolo dal vivo. Essere umano che parla a essere umano. Ogni volta un fatto diverso anche se è la replica numero vattelapesca. Però, forse, anche dire questo non basta. Forse, a furia di ripeterla, questa verità sacrosanta si è consumata come si consumano i braccioli di velluto. Senti che c’è dell’altro. C’è di più. C’è un mistero.

La dimensione catartica del Teatro. E va bene. Sappiamo. Sappiamo da tanto tempo. Sappiamo perché è un tema che conosciamo, comunque l’abbiamo studiato e appreso. Ma no. Nemmeno questo basta. Forse non si può dare un nome preciso ad ogni cosa. Ci sono terre che devono rimanere non segnate sulla carta. Quelle che chiunque può intravedere di nuovo, all’improvviso in mezzo alla nebbia e battezzare da capo, illudendosi di averle scoperte. Il Teatro è una di quelle terre. Si acquatta nel buio. Tu lo vedi di colpo. E ti sembra di averlo costruito dal nulla, momento per momento. Magari nel dormiveglia. Nei sonni d’infanzia. Quasi te lo ricordi. Te lo stai inventando eppure te lo ricordi. La mente è piena di inganni. Di sotterfugi. Di botole che si aprono. Nel Teatro dove il guardare ed essere guardati finisce lì, è la quinta che nasconde. Il sottrarsi. La ritrosia. L’altra faccia. Quella che per un secondo luccica negli occhi dell’Attore più grande di tutti, chiamato e chiamato alla ribalta dai fiumi di applausi che si rinnovano. Tu stai lì. Ti spelli le mani. E a un tratto ti accorgi che in realtà l’Attore vuole scappare. Sparire. Nel suo sguardo, per un secondo, brilla inconfessabile l’implorazione: lasciatemi andare, lasciatemi dimenticare. Voglio tornare al mio nome sulla carta d’identità. Alle mie chiavi di casa. Al mio buono sconto del supermercato. Io sono una piccola cosa.

Resti interdetto: ma come? Perché? Non hai visto cosa sei stato capace di fare? Un attimo fa hai incendiato le parole. Da solo le hai rese vive. Materia ardente, accecante. Ora le mani, ancora una contro l’altra, dichiarano entusiasmo: Bravo! Quella preghiera silenziosa, quel timor panico di un istante si sono già dileguati. Torna l’inchino. Tornano a spalancarsi le braccia. L’attore guarda la platea. Guarda i palchi. Guarda su in galleria. Il rito. L’ultimo momento. E tu ancora là. In piedi. Ad applaudire come un automa. Quel rumore ritmato ti difende dall’angoscia che ti ha chiuso la gola. Vorresti accostarti, raccogliere quella stanchezza strana, metamorfica: «Che è stato, dimmi. Che è stato?». Ma il sipario vi divide. Puoi solo prendere su la tua giacca. E affrontare la notte. Fredda. Fuori.

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