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L'intervista

Battiston e La valigia di Sergej Dovlatov «La “nostalghia” velata dall’umorismo»

A Cervignano e poi a Udine lo spettacolo tratto dal libro di uno degli scrittori russi più irriverenti

Mario Brandolin
2 minuti di lettura

È stato forse uno degli scrittori russi più irriverenti, quello che sulla scorta dei grandi dei primi del ’900 ha incarnato con coerenza e disincanto la figura del poeta borderline, sempre in lotta con le proprie inquietudini e con le maglie soffocanti di un regime alle sue ultime scomposte battute.

Lui è Sergej Dovlatov , nato a Ufa dove i suoi genitori erano evacuati da Leningrado nel 1941 e morto a soli 49 anni a New York dove era emigrato nel 1979. “La valigia” allinea otto racconti che prendono spunto dagli oggetti, pochissimi, che lo scrittore sceglie di portarsi appresso in America, dove dopo tante resistenze decise di raggiungere la moglie e la figlia.

E benissimo ha fatto Giuseppe Battiston ad approcciarsi a questo prezioso volume per trarne, con la complicità di Paola Rota, uno spettacolo che sarà in scena oggi, mercoledì 29 alle 20.45 al Pasolini di Cervignano e il 31 e il 1 aprile alle 20.30 al Palamostre per Teatro Contatto.

«La valigia ce l’avevo nella testa da un po’, l’avevo letta paio di anni fa e mi aveva folgorato. Così dopo la pandemia che mi aveva un po’ allontanato anche dall’idea di tornare a fare teatro, dato che mi pareva alla gente interessasse poco presa com’era dal richiedere a gran voce la riapertura di bar e ristoranti, e dovendo immaginare qualcosa che ridesse anche a me la voglia ritornare sul palcoscenico, non potevo che ritornare a questo libro e a questo autore che tanto mi appassiona».

Perché l’appassiona?

«Perché, attraverso questi oggetti che riesce a portare con sè, viene fuori il racconto di oltre vent’anni di vita in Unione sovietica con tutte le passioni e le idrosincrasie di questo scrittore. La prima fra tutte la sua attenzione disinteressata per i disgraziati, per i vinti per gli ultimi, per gli esclusi, presso i quali si sente a proprio agio. E attraverso queste figure racconta se stesso, il suo popolo, il suo paese».

Verso il quale è critico...

«Anche se va detto che lui è stato un dissidente sui generis, non politico e ideologizzato, non ha mai rinnegato il suo Paese di cui ha sempre evidenziato le storture, pagando anche in prima persona. Criticava il comunismo, ma con la consapevolezza che il popolo russo, cosa che per noi non sempre è chiarissima, è oppresso da secoli, prima con gli zar e poi con il comunismo».

Il tutto però ammantato da quel sentimento tutto russo che è la nostalghia, così ben descritto dal celebre film di Tarkovskij.

«Esatto, quel senso acutissimo di appartenere a un mondo amato anche se crudele. E Dovlatov si ammalerà di nostalghia quando sarà negli Usa, perché scoprirà che della libertà americana se ne può fare ben poco, incline come è,sono parole sue, in egual misura sia al bene che al male».

C’è poi nella scrittura e nella poetica di Dovlatov una vena umoristica che rende anche divertente la lettura.

«Umorismo non comicità. Che, se nello spettacolo c’è, è solo di riflesso perché la scrittura di Dovlatov è velata da un umorismo raffinatissimo ed è stata una delle cose che abbiamo ben tenuto presente nella drammaturgia, affidandoci quasi completamente alle parole di Dovlatov, e in questo senso lo spettacolo ha un andamento più narrativo. Ma lo stile di Dovlatov è meravigliosamente teatrale, fatto com’è soprattutto di divagazioni, di situazioni e personaggi che passano da uno all’altro per poi ricomporsi in un disegno unitario. Il che per un attore ha dell’irresistibile».

Che cosa viene fuori per noi oggi, in fondo distanti da quel mondo e soprattutto presi da crisi climatiche, pandemie, guerre?

«Viene fuori un viaggio nello spazio e nel tempo che parla di una condizione migratoria che credo appartenga a tutti. Noi migriamo costantemente, nella nostra vita banalmente migriamo da un’età a un’altra e che cosa ci portiamo dietro da quell’eta? Lo spettacolo parla della condizione di chi lascia qualcosa e si confronta con quello che ha lasciato e con quello che porta con se’, e questo dovrebbe far pensare tutti».

Pur nella loro distanza tra il personaggio di Dovlatov e Battistuti, protagonista del suo film “Io vivo altrove” esiste una qualche consonanza?

«Si, c’è una cosa che li unisce: la purezza d’animo, la grande sensibilità e la levità con cui affrontano il mondo e le sue asperità».

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