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il ricordo

Minà e quel reportage in Friuli nel ’76: «Mi colpì subito l’orgoglio della gente»

Il giornalista raccontò nel 2016 quell’esperienza di giovane cronista nelle terre distrutte dal terremoto

MAURA DELLE CASE
Aggiornato alle 3 minuti di lettura

Immagini di distruzione scorrono sul piccolo schermo. L’operatore riprende dall’auto in movimento. Macerie e silenzio. Solo dopo 11 secondi il giornalista ci mette la voce: «Stiamo arrivando nella zona più duramente colpita, case diroccate, morte, gente che non riesce nemmeno più a piangere. Sono i paesi di Buja, Majano, la cittadina di Gemona».

La voce è di Gianni Minà, scolpita nella memoria dei protagonisti di quei giorni tragici come delle generazioni che sono venute dopo e che l’hanno fatta propria anche grazie alle sue corrispondenze per il Tg2.

Ed è quella voce che è venuta in mente ai friulani lunedì sera, quando la notizia della scomparsa di Minà, mancato a 84 anni, è rimbalzata da Roma. Prima che al giornalista sportivo, la gente ha pensato all’inviato del Tg2 sui luoghi del disastro, ai suoi servizi, impastati con immagini e silenzio, ai volti e alle voci rotte dei primi intervistati, alle sue mani posate sulle spalle dei friulani ai quali porgeva il microfono nel tentativo infondere loro un po’ di coraggio quando la voce piegava al pianto.

I servizi di quelle prime ore sono diventati parte della narrazione del terremoto, guardati e riguardati per la loro autenticità, per la devastazione mostrata in presa diretta come pure la prima reazione dei friulani, la forza d’animo e la determinazione che, insieme al dolore per i tanti lutti, gli avrebbero consentito di rimettere in piedi interi paesi nei dieci anni successivi.

Non lo poteva sapere Minà che pure, arrivando in Friuli, da attento osservatore, qualcosa l’aveva intuito. Aveva alzato la mano senza indugio, la sera del 6 maggio 1976, quando il direttore aveva domandato chi fosse disponibile ad andare sui luoghi del disastro.

«Ero di servizio alla redazione sportiva del Tg2 e sento nel corridoio Andrea Barbato che dice “c’è qualcuno di voi che può partire subito? Pare ci sia stato un terremoto terribile, ma non sappiamo bene se in Friuli o in Slovenia” (allora Jugoslavia, ndr)» ricorda Minà nel 2016 in un passaggio del documentario di Stefano Garlatti Costa «Quando la terra chiama» (2016).

Anche per lui – seduto, 40 anni dopo, nel salotto di casa, una pila di quotidiani alle spalle, le foto di famiglia esposte sul tavolino da caffé – il ricordo di quei giorni è marchiato a fuoco: «Ero un cronista di belle speranze, della redazione sportiva, non avrei dovuto nemmeno mettere parola in quella ricerca del direttore».

Invece Minà non esita un attimo: «Vado io». Si mette in viaggio con il collaboratore Gualtiero Brescina, senza certezza della destinazione, scoperta strada facendo: «Mi fermo a un autogrill per una chiamata con i gettoni – confessa ancora nel documentario – e mi dicono che il disastro è in Friuli».

La scossa è stata di forza impressionante – 5,6 gradi della scala Richter – ha distrutto interi paesi e causato 990 morti.

All’alba, i due sono a destinazione. «Una cosa ci impressiona – racconta ancora nell’opera di Garlatti Costa il giornalista – . C’era come una linea di demarcazione: di qua il terreno non era stato colpito dal terremoto, di là era una tragedia».

O due non perdono tempo. L’occhio della telecamera inizia a inquadrare. Immortala in bianco e nero case distrutte, gente che si affanna tra le macerie, i primi viveri per le persone rimaste senza un tetto, le bare messe in fila.

«Ci servono tende» dice un volontario con la voce rotta. «Trovammo solo morte e distruzione», ma anche «persone con una dignità e una forza d’animo incredibili di fronte a una tragedia simile» ricorda Minà raccontando il suo arrivo a Majano.

«Di terremoti in Italia ce ne sono stati tanti – aggiunge – , però l’orgoglio che avevano gli italiani di quella zona nel non piangere…». Pensava, probabilmente, alla giovane incrociata sulla strada a Casasola, una delle prime persone intervistate arrivando sui luoghi del sisma, che lo stupisce per nervi saldi e lucidità, per l’assenza di lacrime a rigare le guance.

Quando Minà glielo fa notare, lei replica: «A cosa serve piangere, qui bisogna ricostruire, non piangere».

«Questo era il mio Friuli, io vivevo qui, guardi adesso cos’è» continua con il candore dei suoi 18 anni, «dopo esser stata chiamata per la prima volta signorina» ci ricorda ieri al telefono, riservata oggi come allora.

«Niente nome e cognome» ammonisce prima iniziare a ricordare: «Lui stava cercando di entrare in paese e io fermavo le auto perché c’era già il fenomeno dei curiosi. Allora non sapevo chi fosse, la tv era arrivata da poco e poi eravamo tutti scioccati.

Di quei primi giorni ho solo dei flash». Sono passate poche ore dal sisma e quella giovane, ai microfoni della Rai, parla per la prima volta di ricostruzione, che diventa in breve la parola d’ordine dei friulani, una ragione di vita nei dieci anni successivi, trascorsi a capo chino e maniche di camicia, a rimettere in piedi fabbriche, case e chiese, nell’ordine impartito dall’allora arcivescovo di Udine, monsignor Alfredo Battisti, una delle colonne della rinascita del Friuli.

«Mi colpì subito l’orgoglio, la dignità della gente – ricorda ancora Minà nel documentario di Garlatti Costa – : non parlava degli aiuti che doveva arrivare, non accusava nessuno di essere stata dimenticata, si tirava su le maniche per incominciare immediatamente dopo le scosse a ricostruire».

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