Stewart Copeland in Castello a Udin&Jazz: «Serata di classici per rievocare i Police»
Il batterista e compositore protagonista dell’evento il 12 luglio. «La musica rimane sempre il linguaggio dell’amore»
Elisa Russo
«Vengo in Italia il più possibile, con qualsiasi “scusa” a volte con una rock band, altre con l’orchestra, mi sono infilato perfino alla Notte della Taranta in Puglia. La mia artista italiana preferita è Irene Grandi, con cui ho collaborato».
Stewart Copeland, musicista e compositore noto soprattutto per essere stato il batterista e fondatore dei britannici Police (con Sting e Andy Summers) dal 1977 al 1986 e nella reunion del 2007-2008, inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, oltre 60 milioni di dischi venduti, è considerato uno dei batteristi più influenti di sempre. Vincitore di sette Grammy, ha composto opere, balletti, colonne sonore per registi quali Francis Ford Coppola, Oliver Stone, Ken Loach.
Il 23 giugno esce il nuovo album “Police Deranged for Orchestra”: dà il nome anche al tour mondiale che a luglio farà tappa in Italia, la prima di sei date è il 12 luglio a Udin&Jazz Festival, nel Piazzale del Castello di Udine. Copeland riprodurrà con l’orchestra residente (in questo caso l’Orchestra del Fvg) i grandi successi dei Police come “Roxanne”, “Don’t Stand To Close To Me”, “Every Breath You Take”.
«Canzoni che tutti conoscono – racconta – a cui il pubblico è affezionato, tra le mie preferite “Walking On the Moon”, “Message in a Bottle”, “Every Little Thing She Does is Magic”. Una scaletta di classici ma rivisti in maniera particolare, è come se avessi destrutturato le canzoni per ricostruirle con l’orchestra. E nella mia band ci sono tre cantanti “soul sisters” da Amsterdam, chitarra, basso, batteria».
L’orchestra invece è locale, avete modo di conoscervi prima?
«Facciamo un’unica prova il giorno stesso dello spettacolo. In Italia, ogni sera ci sarà un’orchestra diversa, e so che ciascuna sarà fantastica, pur con le differenze che ogni personalità porta. Qualcuna ha gli archi più pronunciati, un’altra i fiati ma ognuna a modo suo è devota a quello che legge sullo spartito e diventa quasi una rock band».
Essere considerato uno dei numeri uno la condiziona nella vita quotidiana?
«Alla mattina infilo ancora una gamba alla volta nei pantaloni come tutti gli altri! Certo, è un onore. Poi la musica non è uno sport, non ci sono i punteggi. Se in una lista dei migliori batteristi non viene incluso Mitch Mitchell, allora per me non conta. Ci sono io nella top ten di Rolling Stone, ma quando vedo chi manca penso che è un’opinione e ognuno può avere la sua».
Con gli anni com’è cambiato il suo approccio alla musica?
«La musica è il linguaggio dell’amore, la sua potenza non può che aumentare su un adulto. Cambia la fruizione: ho 70 anni, sette figli, moglie, famiglia e non vado a ballarla in discoteca, per esempio».
Se non fosse diventato musicista?
«Probabilmente sarei un giornalista, reporter. Andare nei luoghi e raccontarli mi piace molto, cosa che ho fatto in alcuni documentari per la BBC».
Il suo nuovo libro “Stewart Copeland’s Police Diaries” arriverà anche in Italia?
«Sì, lo stanno traducendo».
Come mai ha deciso di raccontare solo i primi anni dei Police?
«Perché quella è la parte interessante della storia, gli inizi di stenti, che fanno diventare una band quel che è. Poi tutto diventa ripetitivo. Inoltre, della parte successiva avevo delle riprese con la telecamera che sono diventate un documentario, così il libro finisce dove il film comincia».
Se potesse per un attimo tornare a quegli anni cosa (si) direbbe?
«Oh, direi a quel batterista di darsi una calmata. E al tempo stesso spero proprio che quel batterista non mi dia ascolto».
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