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La rassegna

Sara Simeoni ospite a èStoria: «Le atlete penalizzate rispetto ai maschi, per noi niente era scontato»

Venerdì 26 a Gorizia l’inaugurazione della rassegna dedicata alle “Donne”. Poi l’incontro con la saltatrice, oro olimpico a Mosca nel 1980, autrice di “Una vita in alto”

Alex Pessotto
3 minuti di lettura

Sara Simeoni, atleta simbolo degli anni Ottanta, vittoriosa alle Olimpiadi di Mosca nel 1980

 

Nell’esplorare le “Donne”, titolo dell’edizione 2023, èStoria non trascura il mondo dello sport. Lo fa con Sara Simeoni che, venerdì 26 maggio, alle 19, dialogherà con la giornalista Marinella Chirico alla tenda Erodoto di piazza Battisti, a Gorizia.

Per la campionessa, anche autrice di Una vita in alto scritto assieme a Marco Franzelli (Rai libri), non è il più felice dei momenti: mentre era fuori con il marito Erminio Azzaro, altista a sua volta saltatore come del resto il loro figlio Roberto, ha subito un furto nella propria abitazione di Rivoli Veronese.

Tra anelli e collane, i ladri le hanno rubato la medaglia d’oro vinta nel luglio del 1980 allo stadio Lenin di Mosca in un'edizione dei Giochi olimpici caratterizzata dal boicottaggio statunitense. L’incontro sarà preceduto, alle 18.15, dall’inaugurazione della 19° edizione della kermesse.

Signora Simeoni, rabbia, tristezza, amarezza. Cos’ha provato?

«Tutti questi sentimenti. Quando sono rientrata a casa, vederla sottosopra, accorgermi che avevano messo le mani dappertutto, non ha rappresentato certo una piacevole emozione.

Sono stata qualche giorno in trance, senza il coraggio di controllare quello che mi era stato portato via. Andando a letto, erano le 3 di notte, mi sono subito accorta che il contenitore dove tenevo le medaglie olimpiche era vuoto.

Allora mi sono convinta che me le avessero rubate. Poi, comunque, rimettendo in ordine ho notato che le due medaglie d’argento (Montréal 1976 e Los Angeles 1984) erano finite sotto al letto. Ma quella d’oro, vinta a Mosca nel 1980, non l’ho più ritrovata».

Quell’oro olimpico costituisce la sua soddisfazione più grande?

«Per fortuna, di soddisfazioni ne ho avute molte, come quando ho stabilito il record mondiale. Ovvio, se non avessi vinto l’oro olimpico mi sarebbe dispiaciuto. Sì, per me è il coronamento della carriera, ma anche altri riconoscimenti hanno un notevole valore».

Lei, in quanto donna, si è sentita discriminata, rispetto agli atleti maschi?

«Senz’altro. Quello che ho ottenuto l’ho raggiunto unicamente con il mio lavoro, mentre per i miei colleghi era tutto scontato. Non avevano alcun bisogno di sgomitare.

Anzi, venivano messi nelle migliori condizioni per emergere. Io, invece, ho dovuto far leva soltanto sui miei risultati, dimostrando di meritare tutto quello che mi veniva messo a disposizione».

Oggi, l’atteggiamento nei confronti delle atlete è cambiato?

«Sì, sicuramente. Anche perché si è finalmente capito che pure le donne riescono a ottenere grandi risultati, medaglie, riconoscimenti. Insomma, anche loro possono essere importanti per il mondo sportivo.

Di più: nei confronti delle donne si è dovuto recuperare il tempo perduto, visto che rappresentavano un universo tutto da scoprire. Ma è stata la mia generazione ad aprire la via allo sport femminile.

E ora c’è una parità. Al punto che pure le società militari forniscono alle ragazze la possibilità di allenarsi».

Tra i tanti atleti che lei ha avuto modo di conoscere e anche soltanto di incontrare chi l’ha in qualche modo impressionata?

«Al massimo, posso dire di aver provato ammirazione per certi atleti, ma dovendo nominarne uno a cui sento di dovere qualcosa cito Dick Fosbury: ha rivoluzionato il mio sport.

Peraltro, il suo è stato un cambiamento non solo nello stile: Fosbury ha dato l’opportunità a tanti giovani di superare misure che, con il salto ventrale, mai avrebbero raggiunto. Inoltre, ha permesso l’avvio di una nuova metodologia di allenamento utile per tutto il mondo dello sport».

I giovani fanno molto sport in Italia?

«Più che altro hanno la possibilità di farlo. In questi trent’anni c’è stato un enorme cambiamento a livello sportivo che permette alle nuove generazioni di praticare sport che, ai nostri tempi, non c’erano. E ciò vale specie per le ragazze.

Che poi lo sport venga fatto bene è un altro discorso, ma è importante un concetto che ormai è emerso chiaramente: che lo sport è importante alla salute, ecco il principale motivo che deve spingere a praticarlo. Naturalmente, se poi arrivano anche i risultati è ancora meglio».

Oltre a lei, l’atleta italiano simbolo di quegli anni è stato Pietro Paolo Mennea. Che rapporti aveva con lui?

«Abbiamo entrambi frequentato per dieci anni il Centro di Preparazione Olimpica di Formia, ma Mennea, finito l’allenamento, si ritirava e non faceva vita sociale. Insomma, non abbiamo mai mangiato assieme.

Era molto concentrato sul raggiungimento degli obiettivi, probabilmente molto più precisi rispetto ai miei. Assieme a quello che poi sarebbe diventato mio marito, Erminio Azzaro, io ero andata a Formia per capire quali margini di miglioramento avrei potuto avere allenandomi seriamente.

Poco dopo, ho vinto il primo campionato europeo indoor e compreso di aver fatto la scelta giusta».

Che cosa le ha insegnato lo sport?

«La consapevolezza delle mie possibilità. Mi ha consentito di aver fiducia in me stessa. Credevo sempre che le altre fossero migliori di me.

Poi, però, ho potuto formare il mio carattere, ho provato nei miei confronti una sicurezza maggiore e, quando gareggiavo, non mi sentivo più inferiore: non avevo voglia di sopraffare nessuna, ma soltanto di esprimermi attraverso lo sport». —

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