Veltroni, dal libro al film: «Mi piacerebbe trasmettere serenità e speranza»
L’autore di “Quando” sarà domani al Kinemax di Gorizia. È la storia di un uomo che si sveglia dopo 31 anni di coma
Gian Paolo Polesini
In politica dal 1970, segretario del Pd nel 2007, nel frattempo deputato, sindaco di Roma, direttore dell’Unità, innamorato del cinematografo, regista, sceneggiatore, scrittore. Di certo con Walter Veltroni non t’annoi a scambiare quattro chiacchiere informali, il problema è trovare l’incipit giusto in mezzo a quest’abbondanza di ruoli. Giusto per partire dalla cronaca, in veste di romanziere e di regista, Veltroni sarà domani, giovedì 8, alle 20, ospite delle “Giornate della luce” nella trasferta goriziana al Kinemax, in collaborazione con l’Amidei, in dialogo con Luana de Francisco e con Giuseppe Longo.
E già si presenta un gancio facile, come diceva la Carrà: lei nel 2020 venne a Gorizia per ritirare il premio Sergio Amidei alla cultura cinematografica.
«Ricevere un riconoscimento con quel nome è un onore. Amidei è stato “il cinema”. Eravamo in piena pandemia però ricordo la visita in piazza Transalpina: un simbolo per Gorizia che, nel dicembre di quell’anno, fu scelta quale capitale europea della cultura 2025».
Qualcuno dice che lei portò fortuna.
«Ne sarei felice, se così fosse. Anche perché sloveno era mio nonno materno Ciril Kotnik, ambasciatore del regno di Jugoslavia alla Santa Sede. Dopo l’armistizio del 1943 aiutò gli ebrei romani a scappare dalla persecuzione nazifascista e, per questo, fu torturato e ucciso. C’è una targa che lo ricorda sulla facciata della sua casa a Lubiana».
Dal libro “Quando” al film “Quando”. Un delicato omaggio a un passato dove i “sentimenti erano giusti” e a un presente che corre troppo veloce. Mentre scriveva il romanzo pensava al lungometraggio?
«La struttura narrativa cerca l’immagine e non potrebbe essere altrimenti per la mia formazione che rincorre l’uso della cinepresa. Parole e visioni si confondono spesso nella mia testa generando quasi un copione».
La storia contempla il risveglio di un ragazzo dopo trentun anni di coma a causa di una ferita alla testa durante i funerali di Berlinguer. Una miscellanea di nostalgia, malinconia e, soprattutto, di stupore ci accompagnano impadronendosi dei ricordi di tutti noi.
«La nostra generazione ha vissuto di accelerazioni e di frenate, grazie a Dio la guerra ci è stata risparmiata, ma il confronto con un presente sorprendente — pensi solamente all’intelligenza artificiale — ci obbliga a continue strambate. Ecco, mi piacerebbe che la sensazione dominante di questa pellicola, uscendo dalla sala, fosse un senso di consapevolezza del nostro vissuto, unito alla speranza e alla serenità, le stesse percezioni che Giovanni (Neri Marcorè, ndr) sentiva addosso prima di addormentarsi».
Il cinema post pandemia pare soffrire della sindrome dell’abbandono. Individua medicinali utili a tirarlo un po’ su?
«La gente si porta ancora addosso quel senso d’individualità che l’ha imprigionata per troppo tempo costringendola all’isolamento e, naturalmente, alle piattaforme. Trovo che sia un’emozione soltanto entrare in sala. Comprendo che ognuno viva lo spettacolo a modo suo. C’è dell’altro, ahimè: vedo troppi spettatori con il cellulare in mano durante la proiezione. Dietro a un film c’è un lavoro pazzesco di grande sacrificio. Un po’ di rispetto nei loro confronti sarebbe gradito. Mi viene in mente Fellini e quando con lui discutevo sul tema dell’integrità dell’opera cinematografica. Si ricorda la battaglia contro gli spot durante la visione? Pensi cosa direbbe oggi Federico».
Anche il giornalismo non se la passa bene.
«Fatico a vedere un under 40 mentre sfoglia un giornale di carta. E, comunque, manca l’autorevolezza di certe testate. La qualità della scrittura va salvaguardata».
Lei nel 2012 andò “A che tempo che fa” ad annunciare che non si sarebbe più ripresentato alle politiche dell’anno successivo. Come vede la tanto discussa questione Fazio?
«La Rai ha sempre contemplato una pluralità di voci, di identità e di culture, che hanno determinato la sua forza. Certo, questa scelta è penalizzante. Ma ne resto fuori: non amo farmi coinvolgere dal giochino delle polemiche. Eccessive e dannose. C’è un’Italia che si diverte a parlare male degli altri sui social, ma c’è, per fortuna, una maggioranza che non lo fa».
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