I viaggi dei nuovi profughi dalla Siria all'area del Sahel
di Giordano Stabile
Uragani, livello dei mari che sale, inondazioni e siccità anomale. Con i conflitti etnici e religiosi che si sommano alla guerra per l'acqua e la terra coltivabile. Storie di popoli disperatamente in viaggio verso terre fertili e temperate
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I siriani la chiamano badiya, la zona semidesertica che si estende a Est di Damasco e Aleppo. E' "l'altra Siria", beduina, nomade, dai costumi conservatori, uomini con il turbante a scacchi bianchi e rossi, donne dai caftani colorati. La distesa gialla inverdisce solo fra febbraio e maggio, le greggi si spostano dai villaggi verso le distese aperte, nascono gli agnelli, e la terra dà frutti per sostenere le famiglie per tutto l'anno. Era così da immemorabili generazioni ma nel primo decennio di questo secolo le primavere sono diventate di colpo sempre più asciutte. Interi clan sunniti si sono spostati verso Ovest, nelle periferie delle metropoli della "Siria utile", la più fertile. Un flusso enorme di persone senza lavoro, ammassata in palazzoni grigi e a stretto contatto con le popolazioni urbane occidentalizzate, con forti minoranze cristiane e sciite, le favorite dal regime di Bashar al-Assad. Una bomba che è esplosa nella primavera araba del 2011 e che poi si è riversata sull'Europa. Le cause politiche, con una dittatura filo-iraniana invisa alla maggioranza, tenuta in piedi con l'appoggio di Teheran e Mosca, restano intatte. Ma anche quelle climatiche.
L'autunno in corso è uno dei più caldi mai registrati, al Polo Nord come nel Mediterraneo orientale. A metà settembre una tempesta di sabbia è salita dai deserti mesopotamici e ha investito la capitale turca Ankara, cosa che non succedeva da decenni. Il clima diventa sempre più ostile, in particolare in tutto l'arco che va dalla Penisola arabica alla Mauritania. I "profughi climatici" sono destinati a diventare la nuova emergenza, e a ben guardare lo sono già. Il Sahel è l'altro fronte incandescente, dove conflitti etnici e religiosi si sommano alla guerra per l'acqua e la terra coltivabile. Secondo l'ultimo studio del norvegese Internal Displacement Monitoring Center, gli sfollati all'interno degli Stati sono saliti nel 2019 a 50,7 milioni, mentre il totale, che comprende anche quelli fuggiti all'estero, è di 79,5 milioni. Secondo il centro distinguere fra "sfollati climatici", circa la metà di quelli interni, e popolazioni in fuga da conflitti è sempre più difficile. "Per esempio - spiega il rapporto - l'emergere del gruppo terrorista Boko Haram nella regione del Lago Ciad, e in particolare nel Nord della Nigeria, è legato alla scarsità di risorse naturali esacerbata dalla siccità e dalla desertificazione nell'area".
Un fenomeno che si è allargato a tutta l'area del Sahel e ha investito Mali e Burkina Faso. L'acqua del fiume Niger, che attraversa con la sua ansa piegata verso Nord la regione semidesertica alle porte del Sahara, è contesa fra tribù contadine africane e i pastori Tuareg, come racconta lo splendido film "Timbuktu" del regista mauritano Abderrahmane Sissako. La destabilizzazione jihadista si inserisce in questo contesto come benzina in un incendio. Le migrazioni ambientali, secondo la Banca mondiale, coinvolgeranno 143 milioni di individui entro il 2050, contro i 25 milioni di oggi. Le prime nazioni a essere svuotate dai cambiamenti climatici saranno le isole nel Pacifico, dove il livello dell'oceano sale di 12 millimetri all'anno e ha già costretto all'esilio decine di migliaia di persone. Ma l'impatto su Africa e Medio Oriente è destinato a coinvolgere centinaia di milioni di abitanti e "il Sahel e l'Africa subsahariana sono le aree più vulnerabili", conferma il Postdam Institute for Climate Impact Research. Il che pone, oltre a problemi logistici ed economici, anche un dilemma di tipo etico e politico. La Carta dell'Onu non contempla i rifugiati climatici fra quelli che hanno diritto all'asilo.
L'accoglienza dei rifugiati in fuga dalle guerre è già difficile, il riscaldamento climatico rischia di mandare in tilt governi in conflitto con le proprie opinioni pubbliche. La desertificazione, la salinizzazione dei terreni, farà salire la quota della terra inadatta a ospitare la vita umana dall'1 al 19 per cento entro il 2070. E' uno tsunami che si sta per abbattere sui Paesi nella fascia di clima temperata. E' solo questione di tempo, rifugiati climatici diventeranno il fenomeno numero uno nelle migrazioni. Ridurre la questione a un problema di "terminologia" è "assurdo", conferma Andrew Harper, dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: "Non c'è tempo da perdere, dobbiamo capire come proteggere queste persone, in modo che non siano costrette a fuggire". Uragani, livello dei mari che sale, inondazioni e siccità anomale. L'umanità si trova "in guerra contro la natura: noi l'abbiamo scatenata e adesso ne paghiamo le conseguenze". Ma reagire non sarà semplice perché "a meno che non vedano una minaccia imminente, le persone tendono a lasciare le cose come stanno". Eppure alcuni cambiamenti sono alla portata di mano e lo si è visto durante l'epidemia Covid-19. Moltissime riunioni sono state sostituite con chiamate su Teams o altre applicazioni per le teleconferenze. Milioni spostamenti con aerei, con conseguenti emissioni di CO2, sono stati evitati, a costo zero.