Le coltivazioni di frutti esotici in Italia sono cresciute vertiginosamente, nel giro di un lustro si è passati da meno di 10 ettari a oltre 500 ettari. Un incremento vertiginoso che ci impone di fermarci a riflettere, soprattutto perché si stima che nel nostro Paese siano oltre 10.000 gli ettari che possono essere destinati alla coltivazione di specie esotiche (dati Coldiretti 2019).

Il tema è molto delicato: non si tratta di voler condannare la produzione di varietà non locali; la storia della nostra tradizione gastronomica è colma di prodotti che trovano la loro origine lontano dalla Penisola. Il nocciolo della questione è più complesso: questa conversione di terreni agricoli a specie alloctone è sinonimo di un'agricoltura intensiva?
Il cambiamento climatico sta certamente mutando i connotati anche al paesaggio agricolo italiano. Che a risentirne maggiormente siano le regioni del meridione non è certo una novità. Il fatto che proprio in Sicilia e in Calabria si stiano moltiplicando gli ettari destinati alla coltivazione di frutti esotici non è di per sé un’empietà, se questo serve a garantire maggiore solidità alle aziende agricole locali. Quest’ultime infatti cercano di trovare un risvolto positivo alla rapida tropicalizzazione, sfruttando un’ingente domanda di avocado, mango, lime ecc.
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Ciò che preoccupa è la velocità con cui si sta cercando di inglobare nel sistema agronomico italiano questi prodotti, assecondando tendenze, a volte, bulimiche del mercato globale. Così facendo si rischia fortemente di connettersi al concetto di agricoltura intensiva: ossia a quelle pratiche agricole scellerate intenzionate a forzare input esterni come lo sfruttamento meccanico del suolo, l’utilizzo di fertilizzanti e diserbanti chimici, l’abuso di enormi quantità di acqua ecc.. Queste logiche, che vanno contro il concetto di ecosostenibilità, non fanno altro che snaturare il vero scopo dell’agricoltura: prendersi cura con un singolo gesto agronomico sia del benessere dell’uomo, sia della salute della Terra.
Ad oggi, quindi, la velocità di conversione da colture autoctone a varietà di frutta esotica rischia di impattare in maniera sconsiderata sui terreni agricoli, sulla vocazione naturale dei territori e dei paesaggi, con il rischio di diventare causa, e non più effetto, della questione climatica.
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La strada di queste nuove colture non deve essere segnata da gestioni intensive. Senza nessun tipo di paragone con il contesto storico, sociale e tecnologico che incluse il pomodoro, la patata, il grano, il riso e tutto quel patrimonio edibile di origine lontana alla base della gastronomia italiana, dobbiamo comunque essere consapevoli che l’adattamento di nuove specie al nostro territorio deve essere lento e progressivo, in modo da impattare il meno possibile sull’ecosistema esistente.

Occorre creare le condizioni adatte, buone, pulite e giuste mi verrebbe da dire, per inserirli progressivamente all’interno delle nostre realtà. Gli imperativi devono essere: produrre senza depredare, evitare di inseguire in maniera cieca e non sostenibile le mode alimentari e rallentare le dinamiche di mercato avvicinandole al tempo della natura.
Così facendo mangiare avocado italiano potrebbe voler anche dire pagarlo meno, ridurre le emissioni di CO2, averlo più fresco, acquistarlo con una maggiore tracciabilità e allo stesso tempo sostenere le campagne del Sud Italia. In virtù di ciò che insegna la storia della nostra cultura, fatta soprattutto di contaminazioni, intrecci e immigrazioni, dovremmo soffermarci maggiormente, senza fretta, a ragionare su quanto le logiche consumistiche del mercato, le mode gastronomiche passeggere e le pratiche agricole possono impattare sul nostro inestimabile territorio.