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Biodiversità

Così il giardino d'Europa rischia di diventare un deserto

Così il giardino d'Europa rischia di diventare un deserto
Dal frumento agli alberi da frutto, dalle razze bovine agli ovini: l'inesorabile declino della biodiversità rischia di depauperare ancora di più la nostra dieta. Ecco quali sono i fattori di rischio principali e le pratiche per contrastarli
2 minuti di lettura

Basta guardarla su una mappa, per intuire la straordinaria condizione dell’Italia: nel cuore del Mediterraneo, collegamento naturale fra la penisola iberica e quella balcanica, lunga e stretta, aggrappata all’arco alpino e protesa verso le calde regioni africane. Il giardino d’Europa, l’hanno definita viaggiatori illustri come Goethe e Stendhal. E ancora oggi possiede il più importante serbatoio di biodiversità del continente, conservando circa la metà delle specie vegetali e un terzo delle specie animali presenti in Europa.


Ogni ecosistema, anche il più piccolo e fragile (un’isola, una valle montana) ha generato una fitta trama di saperi. Generazioni di contadini hanno selezionato le colture più adatte e le razze più rustiche, escogitato sistemi per coltivare pendii scoscesi e terre sotto il livello del mare, trasformato e conservato le materie prime grazie a tecniche raffinatissime.


Un patrimonio di biodiversità, sapienza, paesaggi, che, negli ultimi sessant’anni, è stato pesantemente intaccato. Non esiste un monitoraggio nazionale della biodiversità legata al cibo. Solo studi parziali, analisi regionali e, spesso, dati discordanti. Ma è possibile capire quel che sta succedendo partendo da alcuni casi. Alla fine del secolo scorso, in Italia, si coltivavano oltre 400 varietà di frumento, ma già negli anni ’90 solo 8 varietà rappresentavano l'80% del seme impiegato e oggi, soprattutto per il frumento tenero, gran parte delle varietà sono brevettate di poche multinazionali.


Le varietà locali perdute. Globalizzazione dei mercati e miglioramento genetico sfrenato hanno determinato una forte erosione nel panorama varietale degli alberi da frutto. Un’analisi realizzata su sei specie (albicocco, ciliegio, pesco, pero, mandorlo e susino) ha registrato una perdita del 75% delle varietà locali. Sfogliando i cataloghi delle imprese sementiere, si scopre che negli anni ’40 offrivano solo varietà locali, negli anni ’60 compare un numero eguale di varietà straniere, e negli anni ’90 si propongono tutte varietà internazionali e ibridi. Oggi le varietà locali e tradizionali si trovano solo presso vivai molto piccoli che riescono con difficoltà a mantenere una rete di agricoltori impegnati nella produzione del seme.



Le razze animali scomparse. La situazione delle razze animali di interesse agricolo è ancora più grave. A partire dagli anni ’50 sono state abbandonate le razze locali a duplice o triplice attitudine, adattate agli ambienti più vari e impervi, a vantaggio di razze cosmopolite specializzate per la sola produzione di latte o di carne. Alcune decine di razze ancora presenti agli inizi del ’900 sono ormai estinte e le superstiti sono in grave riduzione. Dodici razze bovine contano meno di mille femmine, sette (Sardo Bruna, Siciliana, Agerolese, Garfagnina, Bianca Val Padana, Pisana, Pustertaler) sono minacciate e cinque (Burlina, Cabannina, Calvana, Montana e Pontremolese) sono in una situazione critica. Delle 53 razze autoctone di polli censite dalla Fao, il 67% è estinto e le 18 sopravvissute sono a rischio di estinzione o in situazioni critiche: da un lato 1000 allevatori hanno in totale 54 mila capi di razze autoctone, dall’altro, 4600 aziende allevano industrialmente 135 milioni di ibridi commerciali.


Certo, va segnalato lo sforzo di tante realtà per salvare la biodiversità agricola: il ruolo importante degli agricoltori custodi, ad esempio, l’Arca del Gusto e gli oltre 340 Presìdi di Slow Food (comunità di produttori impegnati a salvare oltre 100 varietà vegetali, 40 razze animali e centinaia di prodotti trasformati collegati); il lavoro delle associazioni del biologico, che hanno portato l’Italia a raggiungere il 15,8% della superficie agricola destinata a produzioni certificate, realtà come le reti dei “semi rurali” e dei mercati contadini (e tra questi, i Mercati della Terra di Slow Food).

 

Ma ci sono almeno tre fattori che rischiano di decretare l’inesorabile declino di quel che fu il giardino d’Europa.
Il primo: solo il 3,5% degli addetti ha un’età inferiore ai 35 anni e la maggior parte della biodiversità coltivata e dei saperi tradizionali ad essa associati è custodita da aziende condotte da persone sopra i 65 anni.
Il secondo: secondo il rapporto dell’Ispra, il suolo sigillato dal cemento avanza al ritmo di 2 metri quadrati al secondo.
Il terzo: le politiche agricole europee continuano a rafforzare modelli agricoli industriali che, anche in Italia, trasformano i paesaggi rurali in deserti, attraverso la perdita della fertilità dei suoli e il collasso dei servizi ecosistemici (insetti utili e biodiversità in primis).

(Serena Milano è la responsabile per la biodiversità di Slow Food)