L'11 aprile, 24 comuni di cinque regioni hanno presentato un ricorso al Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio per chiedere l'annullamento del "Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee" (Pitesai), avviato dal governo Conte I nel 2019 e approvato definitivamente a febbraio 2022 dal governo Draghi.
Il piano punta a individuare le aree dove sarà consentito lo svolgimento di attività di "prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi" sul territorio nazionale. Con "prospezione" si intendono le attività finalizzate allo studio generale del territorio, senza attività di perforazione. La "ricerca" invece consente alcune attività di perforazione a scopo esplorativo, mentre la "coltivazione" si riferisce alla vera e propria estrazione di idrocarburi dal sottosuolo.

L'iter che ha portato all'approvazione del Pitesai non è stato semplice e il piano è stato subito contestato da un gruppo di attivisti, riuniti nel "Coordinamento nazionale No Triv". Lo scoppio del conflitto in Ucraina ha poi riportato l'attenzione sulla necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dell'Italia e sulla possibilità di aumentare la produzione di gas naturale sul territorio nazionale.
Che cos'è il Pitesai
La stesura di un "Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee" (Pitesai) era stata decisa dal primo governo Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle, con il decreto "Semplificazioni" del dicembre 2018, quindi ben prima della guerra in Ucraina. Tra le altre cose, il decreto bloccava, fino all'adozione definitiva del Pitesai, l'avvio di nuovi processi di prospezione o ricerca di nuovi idrocarburi e sospendeva "tutte le attività di prospezione e ricerca in corso di esecuzione".

Di fatto, da febbraio 2019 - quando il decreto "Semplificazioni" è stato convertito in legge - non è stato quindi possibile presentare nuove richieste per la ricerca di idrocarburi sul territorio italiano, e anche i permessi già concessi sono stati bloccati.
I lavori per la definizione del Pitesai hanno richiesto tre anni, e sono passati per tre governi: il Conte I, il Conte II e il governo Draghi. Il Ministero dell'Ambiente - poi diventato Ministero per la Transizione ecologica a febbraio 2021 - ha lavorato insieme ad altri enti pubblici, come l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e la società Ricerca sul sistema energetico (Rse), ma anche agli enti locali e territoriali, per mappare il territorio nazionale e valutarne l'idoneità per l'estrazione di idrocarburi in base a criteri ambientali, sociali ed economici.
Il Pitesai è stato approvato il 28 dicembre 2021 e pubblicato sul sito del Mite l'11 febbraio scorso. Questo piano esclude sei regioni da qualsiasi attività legata agli idrocarburi (Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Liguria, Umbria, Toscana e Sardegna); considera dei "vincoli assoluti", cioè esclude alcune località dove in passato le attività di estrazione erano già state vietate da varie leggi, come il golfo di Venezia; e aggiunge alcuni "vincoli vincoli aggiuntivi di esclusione", ossia ulteriori limitazioni per preservare altre aree sensibili, come i siti Unesco.
La parte restante del territorio nazionale è stata analizzata e alcune porzioni sono state ritenute idonee per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione. Tra queste rientra gran parte della pianura padana e della Sicilia, e una porzione del Mar Adriatico che affaccia sulle coste della Puglia.

La divisione generale tra aree idonee e non idonee presenta comunque diverse eccezioni. Infatti, le concessioni già attive in mare possono proseguire anche se hanno una o più infrastrutture in aree non idonee, mentre quelle in aree non idonee, ma sulla terraferma, possono proseguire se sono produttive - o improduttive da meno di cinque anni - e se i costi della mancata proroga risulterebbero superiori ai benefici.
Inoltre, anche le nuove richieste presentate per aree non idonee potranno essere valutate, a patto che le perforazioni esplorative effettuate abbiano certificato la presenza di almeno 150 milioni di metri cubici standard di gas.
Le critiche dei comuni
Queste eccezioni permesse dal Piano sono state contestate da associazioni ambientaliste come Greenpeace, Wwf e Legambiente. "Se un'area è stata individuata come "non idonea" secondo criteri oggettivi da un punto di vista ambientale, economico e sociale, non si capisce perché possano diventare magicamente "compatibili" se c'è una parvenza misera di gas da sfruttare", hanno dichiarato le tre associazioni in un comunicato stampa congiunto, pubblicato l'11 aprile. "I famosi 150 milioni di metri cubi di gas sono una cifra irrisoria rispetto a consumi e produzioni attuali, che di strategico o pubblico interesse ha veramente ben poco".
L'11 aprile, 24 comuni italiani in cinque regioni - Abruzzo, Basilicata, Campania, Sicilia e Piemonte - hanno presentato un ricorso al Tar del Lazio per chiedere di fatto l'annullamento del Pitesai. "Il piano è ambiguo: da un lato decide dove è possibile trivellare, dall'altro sostiene la necessità di continuare con la transizione ecologica", ha detto a Green&Blue Francesco Masi, portavoce del "Coordinamento nazionale No Triv". "Il Pitesai mette sullo stesso piano la salute, l'ambiente e l'economia, ma come si concilia questo con la transizione energetica?". Secondo il Coordinamento, poi, il processo di stesura del Pitesai è stato "poco trasparente" e non ha coinvolto in modo sufficiente i territori.
Il ricorso, presentato dall'avvocato Paolo Colasante e visionato da Green&Blue, evidenzia in particolare quattro punti critici del piano approvato dal governo. In primo luogo, secondo il decreto "Semplificazioni" che l'ha istituito, il Pitesai avrebbe dovuto essere adottato entro il 30 settembre 2021, mentre è stato approvato solo due mesi dopo, il 28 dicembre.
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Il secondo punto contesta la divisione fatta dal Pitesai tra estrazione di gas naturale, che potrà continuare, e quella di petrolio, per cui non potranno essere accettate nuove istanze. Secondo i ricorrenti, questa distinzione viola la legge di riferimento per i titoli minerari del 1991, che di fatto permette di presentare istanze per la ricerca combinata di idrocarburi "liquidi e gassosi", quindi sia petrolio che gas naturale, senza possibilità di selezionare una sola opzione. La limitazione nelle ricerche posta dal Pitesai è quindi una "condizione illegittima", che mina la validità dell'intero Piano.
Nel ricorso si legge poi che il Pitesai non terrebbe conto dell'"impatto cumulativo" che l'approvazione di nuove concessioni per la ricerca o l'estrazione di idrocarburi avrebbe sui territori interessati, una mancanza che sarebbe in contraddizione anche con le richieste europee. Le norme italiane permettono infatti che più operatori possano ottenere permessi di prospezione, quindi di ricerca preliminare, per la stessa area, o che uno stesso operatore possa ottenere permessi diversi per aree confinanti. Una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del gennaio 2022, relativa proprio alla disciplina della ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in Italia, ha però stabilito che in questi casi è necessario valutare "l'effetto cumulativo dei progetti, che possono avere un impatto notevole sull'ambiente". Un elemento non considerato dal Pitesai.
Infine, un altro problema sta nel fatto che il piano non avrebbe fornito un vero e proprio "quadro di riferimento" delle aree idonee e non idonee, come chiesto dal decreto "Semplificazioni", ma si limiterebbe piuttosto a presentare delle linee guida ritenute fin troppo flessibili.
"La guerra in Ucraina ci dimostra che la dipendenza dagli idrocarburi è limitante", ha detto a Green&Blue Roberto Sella, sindaco di Lozzolo (Vercelli), comune tra i firmatari del ricorso che da anni si oppone alle ricerche di petrolio sul suo territorio. "Sono le fonti rinnovabili quelle che possono portare un valore aggiunto, anche dal punto di vista economico".
Qualcosa si muove
Intanto, si fanno sentire i primi effetti del piano. Nel mese di marzo il Mite ha rigettato 37 domande di ricerca di idrocarburi, presentate tutte prima del 2010 e quindi ritenute non più valide. "Mentre si cercano alternative al gas russo, il Ministero della Transizione ecologica respinge tutte le richieste di esplorazione in Italia", ha commentato il senatore di Fratelli d'Italia Andrea de Bertoldi. "È veramente incredibile che, se da un lato cerchiamo più gas per fare a meno di finanziare la guerra di Putin, dall'altro, non possiamo usare quello che si trova nei giacimenti in Italia".
Legambiente, Wwf e Greenpeace sostengono invece che il piano abbia dato il via a "una vera e propria caccia alle streghe da parte di una certa parte del mondo legato alle fonti fossili", anche perché le 37 istanze rigettate "sono 'solo' permessi di ricerca" e quindi nessuna di queste "al momento e nei prossimi anni produce o produrrebbe gas".
La produzione nazionale di gas naturale
Se prima dello scoppio della guerra in Ucraina le politiche energetiche, italiane ed europee, erano sempre più indirizzate verso le fonti rinnovabili - pur riconoscendo la necessità di continuare a utilizzare nel medio periodo il gas - l'attacco della Russia ha cambiato le carte in tavola, mettendo molti governi nella situazione di dover trovare rapidamente alternative al gas naturale in arrivo da Mosca.

Il decreto "Bollette", approvato il 12 aprile dalla Camera con voto di fiducia aprile e ora all'esame del Senato, chiede al Gestore dei servizi energetici (Gse), una società controllata dal ministero dell'Economia, di avviare "procedure per l'approvvigionamento di lungo termine di gas naturale di produzione nazionale" da parte delle società già oggi in possesso di concessioni di coltivazione in aree compatibili con le indicazioni del Pitesai, quindi senza dover attivare nuovi impianti estrattivi.
Il 18 febbraio, durante una conferenza stampa, il ministro Cingolani ha spiegato che lavorando "sui giacimenti esistenti", quindi senza fare nuove trivellazioni, l'Italia "dovrebbe essere in grado di tirare altri 2,2 miliardi di metri cubi" di gas naturale, soprattutto da impianti situati nel canale di Sicilia e nelle Marche. In questo modo "arriveremmo a un portafoglio da 5 miliardi di metri cubi" di gas prodotti sul territorio nazionale, che potranno essere distribuiti a un prezzo più vantaggioso di quello di mercato. Poco dopo, il 25 febbraio, durante un'informativa in Parlamento, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha confermato che l'Italia dovrebbe presto "aumentare la produzione nazionale a scapito delle importazioni".
Secondo i dati del Pitesai, negli ultimi vent'anni il numero di concessioni attive per la ricerca e l'estrazione degli idrocarburi sul territorio nazionale è calato notevolmente: nel 1999, per esempio, queste erano 397, mentre nel 2020 ne rimanevano 248. Anche la produzione nazionale di gas naturale è costantemente diminuita negli ultimi decenni, passando da quasi 17 miliardi di metri cubici standard estratti nel 2000 a 4,4 miliardi nel 2020.

Due anni fa, la maggior parte del gas estratto in Italia, il 55% sul totale, è arrivato dalle piattaforme marittime, mentre la regione con la maggiore produzione su terraferma era di gran lunga la Basilicata, da cui nel 2020 è stato estratto il 34% di tutto il gas prodotto sul territorio nazionale.