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Botanica

La pianta che può salvare il caffé dal cambiamento climatico

La pianta che può salvare il caffé dal cambiamento climatico
La bevanda è minacciata dal riscaldamento globale ma la specie liberica può sopportare temperature più calde a latitudini più basse
2 minuti di lettura

Gli allarmi sul caffè si rincorrono da tempo. Il cambiamento climatico infatti minaccia anche una tra le bevande più apprezzate al mondo e da tempo addetti ai lavori sono alla ricerca di possibili soluzioni per arginare il problema, guardando anche a nuove specie, auguratamente più resistenti, magari dimenticate finora. E ora riscoperte alla luce di nuove urgenze e nuovi interessi.

 

È il caso del caffè liberica (Coffee liberica), la pianta di caffè che, dopo essere stata dimenticata, sta vivendo un periodo di discreto interesse, e si candida a diventare protagonista nel campo, come scrivono alcuni ricercatori sparsi tra Regno Unito e Uganda ripercorrendone le vicende, su Nature Plants. D'aiuto sono stati tanto erbari, campioni commerciali, studi scientifici e osservazioni sul campo, lì dove sopravvive e prospera ancora oggi, come in Uganda appunto. Tutto questo ha permesso agli autori di ricostruirne la storia e di spiegare perché ci conviene guardare anche a questa pianta per garantire il futuro del caffè.

La liberica è una varietà di caffè coltivata da tempo, almeno dal diciannovesimo secolo in Africa, dove è endemica delle regioni occidentali e che verso la fine del 1800 ha goduto del suo momento d'oro, complice i problemi che stavano sperimentando le coltivazioni di arabica in Asia, alle prese con la ruggine del caffè. D'altronde, dalla sua, la liberica giocava le sue carte: pianta robusta, abbastanza produttiva e resistente alle malattie, capace di crescere in pianura, in clima piuttosto caldi. Eppure tutto questo non bastò a mantenerla sul campo: secondo quanto riferiscono gli autori, la qualità del caffè che se ne derivava non era molto apprezzata, soprattutto perché quei grandi chicchi – ben più grandi dell'arabica - complicavano il processo di lavorazione dopo la raccolta: l'essiccazione per esempio era difficile da azzeccare. Il risultato era un caffè che poco piaceva. Non da ultimo, la comparsa all'orizzonte della varietà robusta e l'espansione dell'arabica in Brasile ne avevano messo in crisi il successo.

Passato il periodo d'oro però la liberica non è scomparsa, anzi. Continuata a sopravvivere qua e là – era diffusa in diverse aree africane e asiatiche – e si è mantenuta uno spazio grazie a varietà come l'excelsa, con una buona produttività, semi più piccoli e più facili da lavorare e un sapore più dolce e meno amaro rispetto alla classica liberica, e da più parti riferita come piacevole, simile all'arabica. Interessa commercialmente e comincia ad avere un export dedicato: un po' di questa excelsa è arrivata anche in Italia negli ultimi anni, ricordano per esempio gli autori. Prolifica soprattutto nel Sudan del Sud e in Uganda, dove ci sono stati problemi a coltivare la robusta per via di malattie e siccità; ma anche la vecchia liberica in alcune aree asiatiche e africane sembra riprendere corpo. Merito degli avanzamenti nei processi di lavorazione forse, che ne hanno plasmato meglio il sapore.

Che senso ha raccontare tutto questo? Arriviamo al punto centrale del pezzo su Nature Plants: queste varietà di caffè, che hanno dimostrato punti deboli ma anche punti di forza, possono rappresentare l'opportunità di diversificarne la produzione sotto la minaccia dei cambiamenti climatici, concludono gli autori. Sembrano infatti sopportare climi più caldi e a latitudini più basse. Contare (anche) su di loro potrebbe essere una scommessa per assicurarci la nostra tazzina di caffè.