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Biodiversità

Mediterraneo, perché i capodogli sono più piccoli

(foto: Andrea Izzotti)
(foto: Andrea Izzotti) 
Un gruppo di ricercatori ha "certificato" la differenza di dimensione tra gli esemplari del Mare Nostrum e quelli oceanici. Trovando risposte nell'ecologia e nella genetica. E lanciando un appello: "Monitoriamo questi splendidi cetacei per capire cosa sta accadendo"
2 minuti di lettura

C'è un grande mistero sin qui irrisolto che intriga cetologi e ricercatori, genetisti ed ecologi. Riguarda le dimensioni dei capodogli del Mediterraneo, inferiori - a parità di età - rispetto agli individui oceanici della stessa specie. Perché una differenza così significativa, malgrado il raggiungimento della maturità sessuale alla stessa età? E perché il tasso di crescita del più grande animale vivente munito di denti (e con il cervello più voluminoso, 10 chilogrammi di peso) è, nel Mare Nostrum, sensibilmente diverso rispetto a quello dei cugini dell'Atlantico?

(foto: Andrea Izzotti)
(foto: Andrea Izzotti) 

Le prime, interessanti risposte sono arrivate da uno studio multisciplinare nato da una collaborazione fra diverse istituzioni scientifiche italiane (fra le quali l'Università Politecnica delle Marche e l'Università "Federico II" di Napoli), che - partendo dalla relazione tra età (calcolata sulle linee di crescita che si formano sui loro denti) e lunghezza corporea di individui spiaggiati lungo le coste italiane e dalla descrizione della loro struttura genetica grazie al sequenziamento del DNA mitocondriale - ha approfondito alcuni aspetti del ciclo vitale del capodoglio, la cui biologia è ancora poco conosciuta nel bacino mediterraneo. Ma sono soprattutto arrivate due possibili spiegazioni del fenomeno, confluite in un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista internazionale Animals.

"Una possibile interpretazione - spiega Vincenzo Caputo Barucchi, ordinario di Anatomia comparata all'Università Politecnica delle Marche - tiene conto del minore apporto energetico degli individui mediterranei rispetto a quelli atlantici, dovuto principalmente a prede di dimensioni inferiori e a condizioni meno produttive del Mediterraneo rispetto all'Atlantico". Siamo quello che mangiamo, e dunque l'assenza, nel Mare Nostrum, di giganteschi calamari del genere Architeuthys, che i capodogli sono in grado di cacciare spingendosi fino a oltre duemila metri nelle profondità abissali, avrebbe determinato un progressivo ridimensionamento della lunghezza degli esemplari mediterranei. Qui, del resto, questi cetacei sarebbero entrati dall'Atlantico durante l'ultima fase delle glaciazioni, circa ventimila anni fa: in ventimila anni avrebbero dunque sviluppato caratteristiche peculiari che li differenziano, almeno nelle dimensioni, dagli esemplari dell'oceano, pur conservando, a livello mitocondriale, un unico aplotipo. 
(foto: Andrea Izzotti)
(foto: Andrea Izzotti) 

Ma c'è anche un'altra spiegazione, non alternativa, che riconduce alla pressoché totale assenza di variabilità genetica del capodoglio mediterraneo dovuta allo scarso flusso genetico con le popolazioni atlantiche. Un fenomeno che, spiegano i ricercatori, "favorisce l'incrocio tra individui strettamente imparentati, con conseguenti effetti negativi come la manifestazione di tare genetiche - un fenomeno noto come "inbreeding depression" -  fra le quali il nanismo".

E questo spiegherebbe anche alcuni casi limite, come quello di una femmina mediterranea gravida di soli 6,5 m di lunghezza del corpo e un'età stimata di 24-26 anni: "Un caso di particolare interesse - spiega Caputo Barucchi -  in quanto le femmine di questa specie raggiungono di regola la maturità sessuale a circa 9 metri di lunghezza totale e a 9 anni di età".

Insomma, ce n'è abbastanza per suggerire di tenere d'occhio l'evoluzione dei capodogli del nostro mare e, al contempo, per lanciare un vero e proprio appello, condiviso dal gruppo di ricercatori, del quale fanno parte Nicola Maio e Fabio Guarino (Università di Napoli) e Tatiana Fioravanti (UNIVPM), che hanno contribuito, rispettivamente, per il lavoro sperimentale sulla determinazione dell'età e per l'analisi genetica.

"La preoccupante uniformità genetica della popolazione di capodogli del Mediterraneo - costituita da poche centinaia di individui - dovrebbe essere sottoposta a un costante monitoraggio volto a promuoverne la conservazione in quanto più vulnerabile alle alterazioni ambientali", sottolineano. Già, perché climate change e inquinamento (marine litter in primis, con i rifiuti in plastica scambiati per delle prede e ingeriti) ne mettono in discussione la stessa sopravvivenza. "Per questo - spiegano i ricercatori - sarebbe fondamentale l'individuazione di aree marine che svolgono un ruolo come siti di foraggiamento o per la riproduzione, cercando di ridurre in queste zone l'impatto antropico, anche con l'istituzione di santuari come il celebre 'triangolo' fra Corsica, Liguria e Provenza che accoglie un'importante popolazione di balenottera comune".

E la nuova frontiera, alla luce degli ultimi studi, è un più puntuale monitoraggio dello scambio genetico fra la popolazione mediterranea e quella atlantica con i moderni approcci dell'analisi genomica che permettono di sondare vaste porzioni del genoma, valutando con maggior precisione il livello di erosione genetica del capodoglio del Mediterraneo.

"È importante sottolineare che la diversità genetica è il carburante dell'evoluzione - spiega Caputo Barucchi - che consente agli organismi viventi di adattarsi a un mondo in costante cambiamento: si può paragonare perciò a un'assicurazione sulla vita che noi umani, unici esseri razionali e ampiamente responsabili del futuro del Pianeta, dovremmo sottoscrivere per conto degli altri viventi".