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Biodiversità

C'era una volta il faggio (in pianura)

C'era una volta il faggio (in pianura)
L'albero predilige ambienti umidi tra gli 800 e i duemila metri sopra il livello del mare. Ma uno studio rivela che nell'Italia a clima mediterraneo le aree potenziali che possono ospitarlo si sono ridotte di circa il 48% spostandosi verso l'alto
2 minuti di lettura

Le piante non hanno le gambe ma sanno come muoversi. Durante le ultime glaciazioni ci sono state grandi migrazioni vegetali che dall'Europa centrale hanno portato in Sicilia, tra gli altri, la betulla e l'abete bianco. Anche il faggio rientra tra questi migranti vegetali ma è in una categoria a parte, quella degli scalatori.

Negli ultimi quattromila anni questa pianta in Italia è scomparsa da pianure e colline per rifugiarsi in montagna. Un salto verticale dovuto sia alla pressione dell'uomo che ai cambiamenti climatici. Oggi il faggio è molto raro sotto gli 800 metri di altitudine ma non è sempre stato così. Lo dimostrerebbe un confronto di dati di archeobotanica, immagini spaziali e alcune presenze sporadiche della specie (Fagus sylvatica) che è tornata a colonizzare le quote più basse con l'abbandono dell'agricoltura di necessità.

In Italia le faggete coprono una superficie di circa un milione di ettari: questo albero, una delle specie forestali più diffuse a livello nazionale, è presente in tutte le regioni tranne la Sardegna. Predilige gli ambienti umidi tra gli 800 e i duemila metri sopra il livello del mare. Eppure una ricerca coordinata dalle università di Napoli Federico II e Siena, pubblicata di recente sulla rivista Science of The Total Enviroment, ha rivelato che nell'Italia a clima mediterraneo le aree potenziali dove questa pianta sarebbe potuta crescere si sono ridotte di circa il 48%, spostandosi verso l'alto di 200 metri.

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Per ricostruire la distribuzione Fagus sylvatica, gli autori dello studio hanno confrontando reperti storici di faggio (nella forma di legname, carboni, foglie e frutti) con applicazioni GIS e di modellistica ecologica.


"Il clima sembra aver influenzato lo spostamento del faggio dai 300 metri di altitudine in avanti mentre più in basso si è aggiunto anche l'impatto dell'uomo. - spiega Luciano Bosso, ecologo dell'ateneo partenopeo che ha condotto lo studio con l'archeobotanico Mauro Buonincontri. - Nonostante il clima mediterraneo degli ultimi 4000 anni, il ritrovamento sistematico di reperti di faggio nei siti archeologici a quote inferiori rispetto alla sua distribuzione attuale indica che questo albero fosse presente nelle foreste Italiane mediterranee, dalla collina fino alla costa. Con il tempo l'interferenza delle attività umane sugli ecosistemi forestali diventa più marcata e favorisce la progressiva degradazione dell'ambiente, ormai incapace di garantire la sopravvivenza di specie come il faggio".


In Italia esistono ancora esempi di faggete a bassa quota che vengono definite depresse. Sono relitti vegetali di un'epoca climatica e storica che non esiste più. Ce ne sono alcune in Toscana, molte nel Lazio, come sul Monte Venere o sul Monte Raschio, e vale la pena ricordare anche la faggeta del Parco nazionale del Gargano. Tutte aree naturali diventate di recente patrimonio Unesco. Nell'antichità anche il colle Esquilino a Roma ospitava un bosco sacro di questo albero.

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La ricerca, che ha coinvolto archeologia botanica e analisi spaziale, può essere uno strumento prezioso per sviluppare nuove strategie di restauro forestale. Il faggio, grazie all'abbandono delle terre alte, negli ultimi anni ha iniziato a colonizzare in forma spontanea gli spazi disponibili a quote inferiori. Questo ritorno negli ambienti collinari è dovuto alla presenza di singoli individui, anche isolati, che giunti a maturazione disperdono i semi senza incontrare ostacoli. "Ricostruendo la distribuzione storica di questa pianta nella penisola italiana, - concludono gli autori - si potrebbero identificare le zone al di sotto dei 600 metri di altitudine che sono più adatte ad ospitare questa pianta per aiutarla a tornare nel suo ambiente originario".