"Non è vero che è tutto un bla bla bla come dice Greta, i progressi ci sono, e la lista delle cose da fare è molto chiara". Non nasconde un certo ottimismo l'economista Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development alla Columbia University e consigliere del Segretario generale dell'Onu, che ieri era a Foligno per il convegno organizzato da Nemetria su economia circolare e Pnrr. Si occupa di ambiente e sostenibilità da oltre vent'anni: "Allora sì che le cose non si capivano, e che la confusione sugli obiettivi era davvero grande. Oggi non più".
Professor Sachs, chi è secondo lei ad avere le maggiori responsabilità per i ritardi sull'abbassamento delle emissioni di CO2?
"I Paesi più grandi e le grandi compagnie: ovunque ci sia produzione di carbone e di gas, lì ci sono ritardi. La ricetta è semplice: basta carbone, basta con i progetti espansivi per petrolio e gas, basta con le estrazioni. Tutti gli investimenti devono essere sulle rinnovabili, l'Europa lo sta facendo più di tutti. I problemi restano negli Stati Uniti, in Cina, India, Indonesia, ma anche in questi luoghi crescono i movimenti favorevoli a una totale decarbonizzazione. Non si possono negare i ritardi, ma non ci troviamo più dietro le quinte del problema, adesso siamo in scena.
L'economia globalizzata ha in molti casi aumentato la distanza fra ricchi e poveri, e oggi proprio ai più poveri si chiede di più, dalle sofferenze legate ai disastri climatici fino al rincaro dei costi delle bollette."
Come si corregge questa anomalia?
"È vero, i poveri fanno il sacrificio maggiore, e sarà sempre peggio: dove è caldo sarà più caldo, dove piove pioverà di più, dove c'è marginalità si rischia di finire ancora più ai margini. Spesso i Paesi più ricchi non fanno abbastanza, resistono a dare contributi, non comprendono a sufficienza la gravità della situazione. Il problema è che anche i Paesi ricchi sono in crisi: prendiamo gli Stati Uniti durante la lotta alla pandemia, quanta irrazionalità, quanta confusione, quanta poca coerenza. E per il clima è lo stesso. Adesso questo conflitto ingaggiato dagli Usa con la Cina mi preoccupa, lo trovo inappropriato e pericoloso."
Gli europei avevano riposto molte aspettative sulla presidenza Biden. Si sono sbagliati?
"Il problema non è Joe Biden, il problema è l'America divisa. Gli Stati Uniti non hanno un sistema parlamentare dove c'è un governo e si lavora con la maggioranza parlamentare. Ogni cosa è una guerra, e Biden non ha molti margini di manovra. Il congresso ha pochi voti fra i democratici, molti democratici sono conservatori o rappresentano gruppi di potere, la sua agenda non può che soffrirne. Adesso però è il momento della verità: sul clima i democratici devono sostenere un presidente democratico e le sue riforme. Capisco la delusione degli europei, ma non è Biden il problema. Donald Trump è stato un disastro, ma anche il sintomo del fatto che qualcosa nella cultura e nella società americana si è spezzato."
Si parla molto di economia verde e di finanza verde, ma al momento le operazioni di greenwashing sembrano superiori a quelle di riconversione industriale. Abbiamo un problema di comunicazione o un problema di mancanza di controlli?
"Dobbiamo metterci in testa di fare una trasformazione profonda, direi chirurgica, che vada a colpire il centro dell'economia e del sistema energetico. Non tutte le società sono disegnate per questo, molte sono luoghi in cui abbondano populismo, nazionalismo, corruzione, confusione, alternanza di governi, dibattiti inconsistenti, burocrazie. I sistemi democratici non sono adatti a costruire politiche di comunicazione immuni da tutto ciò. Però possono essere in grado di impostare delle politiche e perseguirle, dandosi dei tempi e degli obiettivi. L'importante è che ci sia coerenza e resistenza nel tempo. Alcuni paesi ce la fanno, guardiamo ad esempio gli scandinavi: anche quando cambiano governo non cambiano direzione, puntano tutti allo stesso obiettivo, go green. Mettiamoci anche l'assenza di una leadership globale, gli Stati Uniti non hanno leader globali. Oggi le maggiori speranze vengono dall'Unione Europea, che con il New green Deal sta facendo un passo importante, senza troppi cedimenti agli interessi nazionali, che pure ci sono in molte zone dell'Europa orientale. L'Europa sta dando la linea, Giappone, Cina e Corea stanno adeguando i tempi per la decarbonizzazione, capiscono che potrebbero averne vantaggi. Il vero freno è la qualità di molti governi, quello americano su tutti, con troppi ritardi e molta imprevedibilità."
Gli scandinavi però sono pochi e spesso si tratta di società chiuse al multiculturalismo...
"È vero, la diversità può essere un fattore di rallentamento, gli Usa ne sono un esempio. Allo stesso tempo vi sono società multiculturali che lavorano molto bene. Prendiamo New York: un piccolo territori odove si parlano 200 lingue e una grande percentuale non è nata lì, eppure la città funziona abbastanza bene. O Singapore, che contiene molte culture ed è un modello di successo. Poi certo che le realtà piccole funzionino meglio. ma il mondo è grande, diverso, variegato: dobbiamo farlo funzionare, non ci sono alternative."
La pandemia ha insegnato qualcosa su come affrontare la crisi climatica?
"Il Covid ha mostrato le debolezze della nostra società, che sono state su tre livelli: cooperazione globale, coerenza delle politiche nazionali e comportamenti irrazionali dei singoli. Per il clima è lo stesso: bisogna ridurre l'uso di carburanti, elettrificare industrie e trasporti, adottare energie pulite. Questo deve accadere e questo accadrà: più tardi sarà, peggio sarà per tutti. Anche qui ci vuole cooperazione globale, coerenza nelle singole politiche e partecipazione dei singoli. Oggi la scienza è unanime, non si possono mettere in dubbio studi ventennali. Non ci sono misteri su quanto sta accadendo al Pianeta. L'unico mistero è capire come organizzarci, quanto tempo metterci, quanto sarà dura."
Cosa pensa della nuova crisi energetica?
"Che sia una grande opportunità. Se fossi giovane e amassi il business costruirei soltanto pannelli solari, prevedo un boom assoluto del settore nei prossimi tre anni."
Si parla molto di leadership femminile per la sfida climatica. È solo uno slogan?
"Le donne nel Covid hanno fatto meglio degli uomini, forse per un naturale istinto alla cooperazione. Non è uno slogan, è un fatto."