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Il commento

Alla Cop26 il vero protagonista è stato il nazionalismo climatico

Alla Cop26 il vero protagonista è stato il nazionalismo climatico
(reuters)
Alla maggiore consapevolezza dell'industria sulla necessità di una transizione ecologica, si è opposto a Glasgow il protezionismo nazionale dei governi. Un nodo geopolitico di grande portata per sciogliere il quale può essere utile la carbon tax europea
3 minuti di lettura

I risultati della CopP26 non sono stati quelli che molti si aspettavano. Le evidenze sui trend dei dati osservativi del cambiamento del clima e la dura realtà delle recenti catastrofi naturali (incendi, siccità, inondazioni etc.) facevano sperare in un deciso e netto cambio di direzione sull’uso dei combustibili fossili. In questo contesto si aggiungeva una maggiore consapevolezza dell’industria verso comportamenti green come dimostrato dalla crescita sempre maggiore di indicatori di ratingambientale (ESGs) ed impegni della grande finanza a sostenerele aziende più virtuose.

Tutto ciò non è bastato. La politica dei governi, ma soprattutto il protezionismo nazionale (“My country first” per dirla alla Trump) hanno dominato il negoziato. Un fil rouge sottile che ha accumunato i “classici”, in crescendo dagli Usa alla Cina, passando per Australia, Arabia Saudita, Sudafrica, Russia etc., con la novità più dirompente dell’India, che di fatto ha messo la manina sul cambio di testo, riferito al carbone, da “eliminare” a “ridurre” gradualmente. Una parolina di poco conto nel nostro linguaggio quotidiano, ma che ha enormi implicazioni se si tratta della fonte più inquinante del Pianeta.

È ovvio che dietro a questa posizione c’è un nodo geopolitico di enorme portata. Come si dice il mondo è cambiato, non è più la Cina nel mirino del futuro del Pianeta. L’India nel 2020 ha quasi raggiunto la popolazione della Cina (1.38 miliardi contro i 1.4 della Cina) ma già nel 2022 supererà la Cina. Si aggiunge una economia che, a dispetto delle diseguaglianze sociali e delle sacche di povertà ancora presenti, sta guadagnando terreno in molti settori strategici dell’umanità dall’informatica, all’elettronica, ai servizi alle imprese, al settore automobilistico e manifatturiero.Tutto grazie ad un elevato e capillare grado di istruzione universitario.

In questo contesto il premier Modi vuole giocare la sua parte nello scacchiere economico Indo-pacifico e non solo, guardando all’India come un futuro player mondiale.Considerando che il valore attuale della concentrazione dei gas serra è l’effetto cumulato degli ultimi 150 anni circa, l’India (come pure altri Paesi emergenti) rivendicano una non-responsabilità climatica e quindi di fatto la libertà ad inquinare per poter crescere : “tocca a noi ora” è il mantra della Cop, lasciando alle vecchie economie occidentali la risoluzione del problema climatico.

L’argomento, seppure capzioso, ha qualche fondamento di principio ma si scontra con una realtà incontrovertibile ovvero che se anche i Paesi occidentali bloccassero oggi le loro emissioni, il riscaldamento climatico, per effetto delle emissioni dei Paesi emergenti, supererebbe di molto i 2°C. Come dire: "i problemi non ce li avranno solo i figli della ricca California o della vecchia e benestante Europa ma anche quelli di India e Cina per effetto delle politiche emissive dei loro Paesi".

Caso diverso sono i Paesi più poveri dove le emissioni sono ancora molto basse ed avranno un impatto nel breve termine ancora modesto .Il “nazionalismo climatico” dei Paesi è quindi il vero protagonista della Cop26, più forte della lobby del fossile, che fortunatamente ha capito che il mondo sta cambiando e sta diversificando il proprio portafoglio energetico.In questo contesto il sistema dei negoziati Onu non può funzionare, o almeno non possiamo affidarci solo a questo per attuare rapidamente la transizione ecologica.

Il meccanismo Onu delle decisioni ambientali che sono prese all’unanimità, diversamente ed unico caso dal Consiglio di sicurezza, portano inevitabilmente a decisioni al ribasso. Nel corso degli ultimi decenni di negoziati sul clima se ne sono visti tanti di fallimenti basati sul veto di un numero esiguo di Paesi (Copenhagen 2009 ne fu un esempio eclatante, con il veto finale alla decisione di Tuvalu, Nicaragua, Venezuela e Sudan). Purtroppo con il metodo del consenso unanime non si può andare avanti velocemente, con buona pace di Greta e del suo encomiabile sforzo di pressione.

Quale è allora l’alternativa? Spostare i meccanismi regolatori e fiscali sui soggetti inquinatori. Ne è un esempio il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam) che l’Europa ha lanciato il 14 Luglio scorso, detto anche “Border Tax”, che emette una tassa sull’importazione in Europa di prodotti ad alto valore di emissione fossile. I soggetti imprenditoriali esteri potranno essere esentati dalla border tax se saranno in grado di dimostrare la loro sostenibilità o che abbiano pagato una tassa analoga nel loro Paese di origine. In questo modo, oltre ad offrire ai prodotti europei una maggiore competitività sul mercato interno, spingerebbe i Paesi emergenti, per quanto riguarda le loro esportazioni, ad essere più virtuosi. Inoltre la border tax, se applicata da tutti i Paesi industrializzati, eviterebbe la delocalizzazione delle aziende in Paesi che non hanno certificazioni ambientali. Quindi messaggio all’India ed alle economie emergenti: si alla crescita, ma organizzatevi dentro i limiti della sostenibilità!

*Riccardo Valentini, ecologo, è membro del Centro mediterraneo per i cambiamenti climatici, membro dell'Ipcc e tra gli autori del rapporto che valse a questo istituto il Nobel per la pace nel 2007