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L'analisi

Cop26: il patto di Glasgow delude, ma c'è la consapevolezza della malattia

Cop26: il patto di Glasgow delude, ma c'è la consapevolezza della malattia
(ansa)
Non ci sono decisioni risolutive per abbassare la febbre del Pianeta, ma tutte le nazioni hanno cercato insieme una cura. Rispetto a due anni fa, il patto Cina-Usa e la disponibilità dell'India a ridurre l'uso del carbone sono passi avanti
2 minuti di lettura

Nessuna medicina risolutiva per abbassare la febbre della Terra, ma almeno ora tutte le circa 200 nazioni al capezzale del Pianeta sono consapevoli della gravità della malattia. È questo il principale risultato della Cop26, che per due settimane ha trasformato Glasgow nell’ombelico del mondo. Una Conferenza Onu sul clima che, come le 25 edizioni che l’anno preceduta, è stata soprattutto un lungo braccio di ferro diplomatico, con un documento finale comprensibile nei dettagli solo alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Eppure se si ripensa al clima, non quello terrestre ma quello all’interno dello Scottish Exibition Center negli ultimi 15 giorni, e soprattutto se lo si paragona all’atmosfera della precedente Cop (Madrid 2019) non si possono negare gli enormi progressi fatti.

A Cop25 c’era un vuoto clamoroso: l’America di Donald Trump che aveva perfino rinnegato gli accordi di Parigi. A Glasgow gli Stati Uniti sono tornati e hanno stretto un patto sul clima con l’altra grande potenza planetaria di questa fase storica: la Cina di Xi Jinping. Cina che a Madrid aveva sostanzialmente lasciato fare, difendendo i propri interessi e soprattutto non avendo alcun obiettivo preciso di riduzione delle emissioni. Nei due anni trascorsi da allora, Pechino ha cambiato decisamente rotta, perché anche i suoi scienziati sanno bene a cosa si andrà incontro se non si ridurrà presto e drasticamente la CO2 immessa nell’atmosfera.

E così nel 2021 il leader cinese ha avviato una lunga (e lenta) marcia verso la decarbonizzazione, con annunci impensabili fino a pochi mesi fa: la  carbon neutrality entro il 2060, lo stop alla costruzione di impianti a carbone nei Paesi in via di sviluppo, fino all’intesa con gli Stati Uniti, siglata a Glasgow, per una drastica riduzione delle perdite di metano.

E perfino l’India, protagonista del dramma finale della Cop26 con la riscrittura dell’articolo relativo alla “eliminazione” del carbone poi diventata “riduzione”, ha fatto passi da gigante. Accettando di divenire carbon neutral, pur se nel lontanissimo 2070, e condividendo l’urgenza planetaria di fermare a 1,5 gradi l’innalzamento delle temperature.

Sull’altro versante, quello dei Paesi industrializzati che hanno la responsabilità storica del riscaldamento globale, si sta finalmente mettendo mano al portafoglio, attivando strumenti finanziari pubblici e privati che possano aiutare Paesi come l’India nella transizione dai combustibili fossili a forme di energia pulita.

Certo, non era quello che volevano Greta e Vanessa, o le piccole isole del Pacifico che rischiano di finire sommerse e le tante Ong che per due settimane hanno protestato fuori e dentro i cancelli della Cop26 di Glasgow. Ma non è un fallimento totale. E lo si capisce dalla reazione di due storiche associazioni ambientaliste, che frequentano la Conferenza delle Parti sul clima sin dalla sua prima edizione, nel 1995 a Berlino. “La Cop26 ha avuto un finale deludente, ma rimane una finestra aperta per restare dentro 1,5 gradi”, scrive il Wwf. E così anche Legambiente: "L’accordo è inadeguato a fronteggiare l’emergenza climatica ma mantiene vivo l’obiettivo di 1,5 di innalzamento delle temperature”.

Insomma c’è un’altra atmosfera, se non sulla Terra, almeno tra le nazioni.