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I grandi vini italiani: la Falanghina

I grandi vini italiani: la Falanghina
Arrivato dalla Grecia, già amato dagli antichi romani che lo consideravano vino da invecchiamento, ha trovato in Campania la sua regione d'elezione
3 minuti di lettura

Dieci è il numero perfetto? Di sicuro si, se si parla della temperatura di servizio della Falanghina, il vino che come pochi altri elemento sa unire le due anime della regione: quella rurale e quella marinara, la Campania dell’entroterra, dei prodotti agricoli, dei bufali, come il versante costiero coi suoi prodotti ittici, gli agrumi, l’olio extravergine. E, coi suoi profumi delicati, si abbina al pesce grigliato o fritto e ai crostacei, alle paste con frutti di mare e sughi di pomodoro e ingredienti tipici come la mozzarella.    
Vino che parla la lingua locale, dunque, fin da quando arrivò oltre due millenni fa dalla Grecia.



Con questi grappoli si produceva il leggendario Falernum, il nettare degli dèi tra i più famosi in età romana. Era così pregiato che per la sua produzione e il suo commercio avevano ideato una sorta di denominazione d’origine ante litteram: sulle anfore in cui veniva conservato e trasportato erano applicate delle speciali fascette di garanzia che ne attestavano provenienza e anno di produzione. Anche glin estimatori dell’epoca evidentemente tenevano in conto l’annata di un grande vino.
Così in alcune cronache di banchetti patrizi ci sono stati tramandate notizie di speciali degustazioni di Falerno invecchiato addirittura cento anni. Intendiamoci, si trattava di un vino decisamente diverso da quelli che oggi si producono con la Falanghina: con ogni probabilità era un vino liquoroso. Ma questo nulla toglie all’importanza e storicità dell’uva, definita da Luigi Veronelli “un autentico e prezioso gioiello”.


Le sue origini antiche sono già insite nel nome, che, secondo un’ipotesi, deriverebbe dai paletti di legno di castagno utilizzati per la coltivazione. I greci, infatti, adottavano un “sistema ad alberello” (lasciando che i tralci crescessero fino a cadere sul terreno), ma in Campania, l’umidità del terreno faceva ammuffire l’uva. Quindi si prese a sollevare la vite da terra legandola a paletti di legno (“phalangae”). Questa soluzione usata dai Romani avrebbe dato poi il nome all’uva. Altri invece sostengono che il nome derivi dalla forma a “falangetta” dell’acino.
In ogni caso, la prima citazione “scientifica” si deve a Nicola Columella Onorati che, nel 1804, inserisce la Falanghina nell’elenco delle uve da mensa. Poi l’ampelografo Giuseppe Acerbi nel 1825 lo descrive come vitigni tipico dei dintorni di Napoli, di origine sannitica, annoverandolo tra i migliori della Penisola.  
 

In Campania ha trovato il suo territorio d’elezione tanto che rientra tra i vitigni raccomandati per tutte le province della regione e per le province di Campobasso, Foggia e Isernia. Ed entra nella base di alcuni dei più apprezzati vini bianchi DOC della Campania, come il Campi Flegrei (tipologie bianco, Falanghina e spumante), il Falerno del Massico, il Capri, il Sorrento, il Costa d’Amalfi; è vitigno complementare nel Lacryma Christi del Vesuvio bianco.
In passato considerata di serie B rispetto ai più noti Fiano e Greco, oggi la Falanghina vive un deciso revival  ed è usata in purezza o in assemblaggio con altri vitigni, per produrre vini secchi, ma anche in versione passita o spumantizzata. La versione secca è non solo la più apprezzata e diffusa ma anche la sua migliore espressione: profumi delicati, di fiori e frutti, gusto sapido, buona freschezza e struttura, con retrogusto appena un po’ amarognolo, quasi a ricordare il melograno.


Dagli Appennini alla costa, la Falanghina ha saputo adattarsi alle diverse caratteristiche dei territori. Per esempio nell’area dei Campi Flegrei, in provincia di Napoli, le vigne affacciate sul Golfo di Napoli, sono inserite come stupende tessere di un mosaico nella cornice tufacea delle scogliere del Monte di Procida e si estendono fino alla Solfatara di Pozzuoli. Nell’interno, invece, le colline sono coperte da una fitta vegetazione e i vigneti si alternano tra il “saliscendi” di antichi crateri spenti. Il vino che nasce in questi luoghi eredita dal suolo - ricco di tufi, ceneri e lapilli - un profumo e un gusto particolarissimo, di note fresche, minerali e balsamiche, con aromi, a richiamare nettamente la mela annurca e sentori di spezie.
Man mano però che ci si muove verso la provincia di Caserta, vicino a Lazio e Molise, la Falanghina acquista profumi più intensi, con note di frutta, di fiori freschi e di agrumi. Anche il Sannio beneventano è vocato per la Falanghina, che addirittura vanta una sua varietà, la Falanghina beneventana, appunto. Qui il vino, per via delle caratteristiche del terreno, possiede un lieve e gradevolissimo sentore affumicato, ha una maggiore struttura e, per l’elevata acidità, si presta alla produzione di vini passiti e spumanti.



Ai primi del ‘900 le vigne di tutta Italia furono colpite dall’epidemia di fillossera, un parassita venuto dall’America, che mise in ginocchio la viticoltura europea. Non fece eccezione la Falanghina e molti vigneti furono del tutto abbandonati. Negli anni ’60 la falanghina era quasi scomparsa salvo qualche eccezione nei pressi del Lago d’Averno dove pochi ceppi centenari sfuggiti all’attacco del parassita continuarono a vivere, ma esclusivamente per uso familiare o per fare  vino “da taglio”. Per la caparbia di un gruppo di viticoltori illuminati, per fortuna si registra una vera rinascita negli anni Settanta. Si impegnarono a recuperare questa risorsa economica ma anche sorico-culturale e di lì a poco furono subito premiati  dalla legge che nel 1989 istituì la Doc Falerno del Massico Bianco e prescrisse l’uso di uva falanghina “in purezza”. E da allora la riscossa continua.