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Birra del Borgo, i conti non tornano? Annunciato via mail il licenziamento di 42 dipendenti

Birra del Borgo, i conti non tornano? Annunciato via mail il licenziamento di 42 dipendenti
La parabola del birrificio nato artigianale e poi acquisito nel 2016 dalla multinazionale Ab-InBev: a rischio chiusura l'Osteria e i punti vendita "Il Bancone" e interi reparti produttivi
4 minuti di lettura

Quando, nel 2016, l’allora birrificio artigianale Birra del Borgo di Borgorose (Rieti) fu acquisito con un fragoroso colpo di mercato da Ab-InBev, la più grande multinazionale della birra esistente, tra gli appassionati del settore si scatenò una discussione durata mesi; che degenerò in recrudescenze lunghe anni. E se da una parte osservatori tiepidi opinavano “bene ha fatto il fondatore Leonardo Di Vincenzo a intascare il malloppo”, che la qualità sarebbe rimasta la stessa, e che se la birra fosse peggiorata pazienza, avrebbero bevuto altro; dalla parte opposta certi partigiani sostenevano che non era la qualità del prodotto in sé il problema, ma che l’industria stesse cercando un grimaldello per arrestare l’espansione del mercato artigianale, impossessandosi delle sue forme e del suo linguaggio senza possederne la sostanza – né in termini strettamente birrari, né soprattutto a livello di modello di business e capitale umano.

Occuperanno con prodotti finto-artigianali tutte le spine che potremmo occupare noi, dicevano, si accaparreranno una fetta di mercato – quella dei bevitori quotidiani che si domandano di fronte a una macro lager se esista una birra diversa – che (fossimo stati un po’ più svegli!) sarebbe stata di diritto nostra, entreranno come virus in marchi storici del settore per cui lavoriamo da trent’anni prendendone il possesso, agitandoli fino allo spasmo come zombie, svuotandoli dall’interno fino a non lasciarne che l’involucro.

Si diceva: se si dovesse imporre il crafty – questo il nome dei prodotti dell’industria che si fingono artigianali – saremo tutti un po’ più poveri, condizionati da un mercato meno “diverso” in cui è l’agenda dei colossi a settare i trend, in cui le uniche birre che restano in campo sono quelle che costano meno e rendono di più, mentre i prodotti meno commerciabili vengono sfrondati sull’altare della capitalizzazione. E si scriveva: attenti, se a darvi lavoro è un’azienda tentacolare e senza volto, senza responsabili, senza nomi, come le banche nell’epopea di Fitzgerald, voi non siete più persone: siete numeri, intercambiabili, meccanizzabili, sostituibili. Chi diceva queste cose veniva definito invidioso, preda di una certa retorica post-berlusconiana di non saper godere del successo altrui.

Così all’acquisizione seguì una duratura euforia: Birra del Borgo, sotto le insegne nascoste di InBev, aprì una sequela di locali meravigliosi, cui capofila era l’Osteria di Birra del Borgo in Prati, a Roma. L’Osteria di Birra del Borgo era pensata per essere ammiraglia e testimone della nuova alba del Birrificio, che dopo anni di modesti ricavi nell’angusto spazio di mercato artigianale approdava finalmente alla lega dei grandi, alla Serie A, ai mezzi e agli strumenti da prima squadra messi a disposizione della società dal super-investitore che aveva creduto nel progetto. Oltre che architettonicamente bellissima e sfarzosa, molto più di qualsiasi umile locale artigianale, l’Osteria aveva prodotti strepitosi in cucina e grandi pizzaioli e cuochi – Gabriele Bonci e Luca Pezzetta tra gli altri. In Osteria si mangiava ottimamente, e accanto alle birre del Borgo, ormai industriali, scorrevano a fiumi dalle spine anche prodotti artigianali tra i migliori disponibili sul mercato. Facevano da coro all’Osteria i locali della serie “Il Bancone”: punti mescita fatti di spine sbarazzine e cucina veloce, dislocati sapientemente in zone di uffici e università.

Al vecchio birrificio di Borgorose, si affiancò una nuova struttura produttiva ambiziosissima, quella di Collerosso: una bottaia sperimentale pensata per sviluppare birre a fermentazione spontanea, acide, curiose e soprattutto ad edizione ultra-limitata, ceralaccata, numerata. Per accompagnare queste evoluzioni, l’azienda si strutturava con un comparto marketing corazzato, una sezione risorse umane addetta al reclutamento di nuovi elementi validi e desiderosi di crescere in un ambiente stimolante, di cuochi, birraie, camerieri e barladies che volevano dipendere da un’azienda solida nella quale sarebbero cresciuti professionalmente: e Birra del Borgo assumeva, e assumeva…

Nel frattempo la stampa, le guide continuavano generalmente per leggerezza (altre volte con dolo) a scrivere di Borgo come fosse sempre quella che era stata prima dell’acquisizione: l’azienda giovane dalla faccia simpatica, sperimentale con un che di contadino, immersa nell’ameno contado reatino. A livello strategico, il marchio diventava partner di importanti kermesse gastronomiche in qualità di main sponsor, e stringeva collaborazioni commerciali con alcune delle migliori pizzerie d’Italia. Queste in cambio di sconti e ombrelloni, ed impianti di spillatura in comodato, si rivelavano liete di acquisire lo stemma della Torre di quella birra tutto sommato quasi-artigianale, di innalzarlo su menu e tendoni e di farne volare il vessillo.

Ma forse non tutto andava a meraviglia: forse no, se le referenze entrate in GDO rimanevano ferme sugli scaffali dei supermercati; giacché risultavano tanto distanti dal gusto e dal portafogli dei bevitori delle consuete biurre industriali quanto incompatibili coi desideri degli aficionados dell’artigianale. Forse non tutto andava bene, se per risollevare il bilancio di BdB è stato necessario inventarsi la Lisa, una lager qualsiasi ma confezionata in una bottiglia carina, e venderla sottocosto per piazzarla a prezzi competitivi nelle catene di grande distribuzione.

Forse davvero non andava tutto alla grande, se oggi, gennaio 2022, a meno di sei anni dall’acquisizione, come riportato da fonti vicine all’azienda oltre che dalla testata di informazione locale Marsicalive.it, Del Borgo-InBev avrebbe inviato a 42 dei suoi 72 dipendenti una comunicazione con la quale li avvisa di una procedura di licenziamento collettivo in atto: via il reparto HR, ridimensionato il marketing, da chiudere il dipartimento produttivo di Collerosso, i locali “Il bancone” ed infine, atto doloroso, anche l’Osteria. Sì, oggi, a gennaio 2022, di Birra del Borgo rischia di rimanere solo lo scheletro della produzione.

Ab-InBev, cui motto è “People First”, si toglie la maschera da gigante buono e agisce da quello che è, una multinazionale. Perché sono costi, quegli stessi operatori specializzati della produzione, del marketing, dell’accoglienza assunti per dare lustro al marchio nel momento in cui ne aveva bisogno, per tentare di affermarlo al cospetto del pubblico quotidiano… Costi superflui, niente di più, una volta che questo progetto di radicamento e reputation building è palesemente fallito; liabilities da tagliare per massimizzare il margine al pari delle materie prime di qualità, dei tempi di maturazione più lunghi, dei turnover più celeri e delle scadenze più brevi per assicurare la freschezza.

Questo è ciò che provavano a dire, sin da sei anni fa, le Cassandra di turno: che l’artigianalità o meno non riguarda solo la bontà o meno di una birra nel bicchiere; ma che al contrario difendere una filiera artigianale e i suoi prodotti significa supportare un modello microeconomico umano fondato, quello sì, veramente sulle persone, sul loro lavoro e sui loro talenti - oltre che sul tessuto di piccole e medie imprese che storicamente costituiscono il substrato produttivo d’Italia, e dovremmo salvaguardare, a prescindere, dalle incursioni globaliste di ogni genere.

Per quanto riguarda l’epilogo mesto della vicenda Birra del Borgo, spiace solo che a farne le spese siano lavoratori, donne e uomini. Siamo certi però che saranno richiestissimi sulla piazza birraria, dato che sono persone capaci, caparbie, appassionate: a questo proposito, per una volta, persino Cassandra ci vede rosa.