Quattro storie, quattro legami e altrettanti ingredienti che si legano alla storia de Il Luogo, alla vita di Fabio Pisani, alle origini di Alessandro Negrini, a quel passato che diventa attuale ogni giorno in cucina e si traduce in metodo. Un amico di infanzia con cui Pisani giocava a pallone, un ragazzo che per pagarsi le scuole serali lavorava in un casalinghi e si appassionava di cucina prima di consegnare il pesce in via Montecuccoli a un cuoco che gli avrebbe indicato una strada, tredici generazioni radicate nella terra di Castelvetrano che con ardire hanno portato l’olio siciliano nella cucina di un toscano a Milano e l’avventura di far volare le galline in un bosco di castagni intrapresa da un convalligiano di Negrini. Materie prime che riflettono l’identità dei luoghi in cui operano e che convogliano in Territori, ognuno con il suo trascorso e il suo sapore. “Non è un approfittarsi ma un avvalersi del loro sapere - sottolinea Negrini - attingiamo alle produzioni locali e alle conoscenze sia con i fornitori datati che con i nuovi”, formulando con ciascuno un percorso personale che va oltre le forniture. Sono più di ottanta i referenti per Il Luogo, qui abbiamo voluto raccontarne alcuni emblematici dei vincoli intellettuali su cui si fonda questo metodo che in cucina diventa menu.
Le aziende
Tenuta Rocchetta - Pierluigi Crescimanno
“Assaggi mille oli poi provi questo e capisci che qui ti devi fermare, diceva Aimo” e lo ricorda Negrini, “ha la caratteristica gustativa data dall’esperienza di Crescimanno a Tenuta Rocchetta: avendo più filari di uno stesso cultivar manda il suo blend per Aimo e Nadia.” Non la pianta apposita, ma la sapienza di saper identificare quali e come miscelarle, “questo olio non arriva nell’esecuzione di un piatto del menu, ma appena seduti. È come accordare un pianoforte, l’olio accorda le papille gustative e il palato”. “La nostra è un’azienda dal 1600 - racconta Pierlugi Crescimanno - e c’è una regola di famiglia: ogni padre pianta ulivi per i propri figli”. A fine anni ’90 hanno iniziato a imbottigliare l’olio e subito i primi premi: “Orientati verso l’alta ristorazione dalle nostre potenzialità, iniziai a studiare le guide e il primo nome che mi balzò agli occhi fu quello di un fanatico dell’olio: Aimo Moroni. Presi appuntamento per farglielo provare e rimase folgorato, il nostro olio era il compendio di quello che cercava in un olio.” Da quel 1997 sono passati venticinque anni e la bottiglia di olio Tenuta Rocchetta è sempre lì.
Il pane di Eugenio - Eugenio Pol
“Faccio solo il pane, non miracoli” tuona Eugenio Pol sotto la lunga barba, benché consapevole della sua maestria. Perito chimico prima di esser stato cuoco per quindici anni, si avvicina alla cucina lavorando come fattorino da Casalinghi Fornaro, a Milano, mentre finiva le scuole serali. Lasciata la chimica tornò in Val Sesia, dove da bambino pescava col padre, per rilevare un bar trattoria, “dopo un anno i conti non tornavano, decisi di tornare a Milano in inverno, lì frequentavo macellerie e pescherie per continuare a imparare. Mi stabilisco a lavorare dai fratelli Pedol, al mercato comunale in piazza Wagner, uno dei clienti era Aimo.” Una sintonia sul filo della motivazione, “in primavera veniva a trovarmi in montagna, alla trattoria, con la brigata: era un confronto costante sulle materie.” Sul libro di Anna Gosetti della Salda approfondisce le ricette regionali, “quelle in cui il pane era fondamentale, ma non venivano come dovevano” e pensa di iniziare a farlo da solo. Scova una panettiera di Lodi dove facevano pane con la madre, i primi ordini e le spedizioni difficili, “al che chiedo aiuto al panettiere per capire come farlo: prendi acqua e farina e aspetti, così si comincia a fare una madre.” Giorni di attesa fino alle prime bolle, “da lì è nato tutto, la madre che mi porto appresso da 32 anni.” Continuava a fare il pane e Aimo continuava ad andarlo a trovare a Varallo dove si era spostato, “i clienti mi chiedevano il pane da portare a casa, poi quando sono arrivato a Fobello ho deciso di iniziare l’avventura del pane, avevo solo il benestare dei miei clienti e di due negozi".
Da questo paese in Alta Val Mastellone il pane è arrivato in via Montecuccoli, nel ristorante del cuoco che lo aveva incoraggiato: ”Aimo lo usava come pane da tavola, lo ha servito per vent’anni.” Sentirlo parlare di fermentazioni e panificazione è come ascoltare un jazz che mescola improvvisazione di note a sapienza nel mescolarle, passa con agilità da un aneddoto a tecnicismi, “la meraviglia di questo pane - quello come il suo - è che in ogni luogo viene differente. anche usando le stesse farine. Perché nel tuo luogo ci sono batteri e lieviti endemici che caratterizzano l’impasto. Il mio non è più buono degli altri, è diverso - dice come se fosse semplice farne uno come il suo - Uno deve fare il meglio che riesce con coscienza, scrupolo e attenzione seguendo ciò che madre e tempo chiedono.” Da quelle prime forme già enormi un successo che lo porta su tante tavole, tante quante riesce a fornirle in prima persona con consegne settimanali e non di più: “Devo ringraziare proprio Aimo che ha iniziato a prendere il mio pane, perché tanta gente in uno stellato presta più attenzione a quello che mangia. Lui faceva un pane e pomodoro che era da impazzire!”. Un legame stretto negli anni e cresciuto, Pol ricorda che “Alessandro l’ho conosciuto quando la brigata veniva in trattoria, aveva 18 anni” e oggi a lui e a Pisani porta il pane che però ha assunto una nuova veste. Il Luogo serve quello fatto in casa, una fragrante pagnotta calda servita insieme all’olio a inizio pasto ma entra come ingrediente in alcuni piatti. “Eugenio è la summa del fornitore de Il Luogo, applica la filosofa del meglio del meglio a tutta la sua filiera, dalle farine ai teli in lino non trattato, fino al vimini raccolto nelle paludi e piegato a mano” sottolinea Negrini. “Mantiene il gesto artigiano, il suo pane è lui” prosegue ma si capisce quale legame scorra. Ci si può domandare se un pane così pregiato non sia sciupato in una preparazione: “Stravolge il paradigma che vuole il pane buono da mangiare a sé, diventa componente e da secco diventa pangrattato. Nella cotoletta alla malese il 35% del sapore è dato dalla qualità del pane; indubbiamente carne, uovo e burro influiscono ma con una grande pane la la panatura sarà grandiosa, altrimenti avrà il sapore di quello in cassetta.”
Pomodoro appeso - Antonio Altamura
Si perde nei ricordi di gioventù il legame che corre fra Fabio Pisani e Antonio Altamura, “lo zio aveva la campagna vicino alla nostra e in estate giocavamo a pallone insieme” ricorda l’agricoltore di Molfetta, terra di origine anche dello chef. “Gli ho raccontato che avevamo cambiato il tipo di metodo con serre e colture protette fuori suolo, lasciando alcuni aspetti naturali, come l’impollinazione tramite insetti, nessun trattamento sotto serra - dopo aver ereditato l’azienda agricola insieme ai fratelli - e gli ho chiesto una piccola collaborazione, di farmi sapere cosa pensava dei miei pomodori.” Così, una cosa segue l’altra, nasce un progetto condiviso che porta nel recupero agronomico della memoria il suo obiettivo: “È il pomodoro appeso, negli anni ’50/60 quando non era disponibile fresco tutto l’anno si facevano scorte nelle cantine asciutte, al buio” prosegue Antonio. Raccolto in estete a maturazione appena avviata si intrecciavano i pomodori su una corda, “le nonne erano esperte nel formare questi grappoli che venivano poi avvolti nella carta del pane e lasciati in cantina appesi alle travi. Il problema è che perdendo l’usanza - venendo meno anche la necessità di conservazione - si è perso il cultivar che era anche difficile da piantare. Oggi con le specie ibride è difficile trovare qualcosa in giro” non riferendosi alle collane appese che si trovano, ma allo specifico pomodoro i cui semi sono difficili da reperire. “Lo scorso anno ho provato con un po’ di semi, qualcuno ha trovato un pomodoro simile da usare per lo stesso sistema, ma ci siamo accorti che non era l’originale.” Una battaglia che non si ferma, lo sforzo per recuperare l’antica varietà prosegue con l’impegno di Altamura e la motivazione di Pisani, determinati non solo nel ritrovamento dei semi ma soprattutto nel recupero della varietà migliore per consegnare al presente un’usanza antica che ha il sapore della loro terra di origine. “Ci sono produttori che fanno i pomodori appesi come un tempo, ma con i pomodori sbagliati e non con la varietà che si usava in passato - sottolinea Negrini - Siamo alla genesi del progetto, non vogliamo obbligare il produttore a impegnarsi, ma spronarlo nella ricerca. Non siamo arrivisti, ma calmi e lungimiranti”, volenterosi nel voler contribuire con il metodo di studio e ricerca Territori a riportare in vita il legame con quella terra e quei giorni estivi passati a giocare a pallone in mezzo ai campi, ma soprattutto riportare in vita il vero sapore dei pomodori lasciati a maturare con il tempo e il buio, con la polpa concentrata dopo aver perso l’acqua e la buccia assottigliata dai mesi.
Una scelta non casuale, data non solo dalla qualità ma anche dalla voglia di raccontare la terra di origine di Negrini, la Valtellina. “Ci sono ristoranti che usano queste uova da prima di noi, per noi il valore è che sia del mio paese - specifica lo chef - Le abbiamo provate durante la pandemia e deciso di usare solo le sue per Il Luogo.” Le sue intendono quelle raccolte da Massimo Rapella e da sua moglie Elisabetta nel bosco di castagni selvatici a Morbegno, “per noi bambini valtellinesi, non avendo tante proteine, la merenda era il rosso d’uovo sbattuto con lo zucchero. Le uova avevano un sapore, difficile da dimenticare come quello del pomodoro per Fabio” chiosa Negrini. La selva dove razzolano le 2000 galline era prima usata dalla comunità per minori che Massimo conduceva insieme alla moglie, fino alla chiusura per taglio dei fondi nel 2013: “Avevamo quattro galline e lasciandole nel bosco abbiamo capito che sono animali rubati alle foreste del Sud Est asiatico 5000 anni fa. La gallina che fa le uova è un animale che ci siamo inventati noi, in natura non esistono: in natura esistono uccelli che fanno un certo numero di uova per riprodursi".
Hanno dato il via con le prime settecento galline e oggi sono al livello massimo sui due ettari di bosco dove vivono libere tutto il giorno, per ripararsi nel pollaio solo al calare della sera. Razzolano, fanno bagni di terra, prendono il sole, mangiano quello che trovano nel sottobosco, oltre ai mangimi che vengono lasciati per loro, volano sui rami saltellando fino ad altezze di 13/14 metri dal suolo. “Il senso dell’uovo di selva è molto semplice - racconta Massimo - le galline depongono le uova qui e io te le porto entro 24 ore”, consegna sempre a mano senza imballaggi, dentro un paniere in vimini in cui ci sono plateau di plastica riconsegnati la volta successiva. “Territorio inteso non come km0 ma come prossimità tra produttore e consumatore: si instaura anche un rapporto diretto, non sono neanche più clienti ma un gruppo di amici che condividono il progetto.” Una produzione, anche se meglio dire ricerca nel sottobosco e raccolta nelle ceppaie e nei nidi più frequentati, che si aggira intorno a mille uova al giorno, con una media di produzione del 50% giornaliero ben al di sotto dei numeri degli allevamenti in capannone. “Dal bosco cosa prendono? Bella domanda, sono uova che cambiano sempre perché cambia il bosco e il sottobosco. Non raccogliamo ricci e castagne, ma non ci sono tutto l’anno quindi ci sono uova autunnali e uova di altre stagioni” spiega con semplicità, non in modo semplicistico. “L’estate è il periodo peggiore, bevono di più per il caldo e fanno uova acquose. L’uovo viene dal becco - sottolineando l’importanza dell’alimentazione per la qualità delle uova - per le galline un uovo è un parto importante, sono 60/70 di un alimento completo. Per fare un uovo deve nutrirsi bene” ed è per questo che mais, avena, frumento e granaglie non mancano mai, poi dalla selva prendono il resto a loro piacere.