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Il Marsala prima del Marsala: un film per raccontare un vino senza tempo

Il Marsala prima del Marsala: un film per raccontare un vino senza tempo
I quattro produttori portati sullo schermo dal regista Andrea Mignolo hanno fatto rivivere il Perpetuo, come si chiamava il nettare siciliano nel periodo pre-british
7 minuti di lettura

“La nostra ricchezza è il vento”. E come non potrebbe essere così a Marsala, lembo occidentale della Sicilia sempre agitato dalle folate. Vento che asciuga l'uva, che porta il sale in vigna, che attenua il caldo africano delle estati di vendemmia. I produttori di vino da queste parti, quelli che stanno davvero in vigna, hanno la pelle cotta e un'abbronzatura che si tirano dietro fino a Natale. Hanno quasi il colore del pre-british, del Marsala prima che diventasse Marsala. A questo vino un regista e un gruppo di vignaioli marsalesi hanno dedicato un film che verrà presentato a Milano il 7 aprile presso l’Apollo Club Milano (le info per partecipare alla proiezione) e che, si spera, faccia molte altre tappe nel Paese.


Perché a pensarci è una tipica storia italiana, di quelle che sanno essere epiche e al contempo autolesioniste. Come quella raccontata in “Pre-British. Il vino di Marsala oltre il marsala”, il film-documentario del regista calabrese Andrea Mignolo che mette in campo - in senso letterale e metaforico - quattro produttori siciliani, Antonio Barraco, Pierpaolo Badalucco, Vincenzo Angileri e Sebastiano De Bartoli, tutti impegnati nel recupero di un vino che fu. In verità c’è un quinto nome, non presente fisicamente, ma che è la fonte d’ispirazione per tutti loro, Marco De Bartoli, il re-inventore del pre-british con il suo Vecchio Samperi, prima bottiglia 1980, in un momento in cui il vino Marsala era la bottiglia da tenere accanto ai fornelli per cucinarci. De Bartoli invece prende un vino contadino e lo nobilita, facendolo diventare un prodotto di nicchia. Tra le bottiglie prodotte per casa nei bagli alle scaloppine al Marsala ci passa tutta la storia degli Inglesi in Sicilia, quella che ha fatto del Marsala uno dei vini più famosi al mondo, accanto al Porto e allo Sherry.

 

L’anno zero è il 1773 quando un commerciante di soda, l’inglese John Woodhouse, assaggia in Sicilia un perpetuo - così viene chiamato il vino Marsala dai locali - che lo imbarca sulle navi per farlo conoscere in Inghilterra. Il prodotto ha così tanto successo  che Woodhouse torna sull’isola per iniziare una produzione di vino, a cui viene però aggiunta l’acquavite, proprio alla maniera del Porto e dello Sherry. La filiera da allora è divisa in due: da un lato, i contadini-produttori che hanno i vigneti e producono il vino iniziale, ovvero la base Marsala, dall’altro gli stabilimenti che comprano il vino base per fortificarlo.

 

Il vino perpetuo, il valore del tempo e 4 produttori di Marsala. Ecco dov’è la storia del film di Mignolo, in questo vino che girava tra le cantine delle case, che riposava per decenni negli angoli dimenticati, che si spillava per feste e anniversari. Fatto con l’uva migliore che si raccoglieva, matura, tinta dal sole e che dava al vino un colore oro carico, anzi ambrato, oggi si direbbe orange. Uva Grillo innanzitutto, ma anche Catarratto e altri vitigni indigeni erano alla base della produzione. E soprattutto nasce come vino ossidativo - stile che oggi va così tanto di moda - perché i contenitori non erano colmati fino all’orlo e ciò generava un processo ossidativo nel liquido. Ecco perché vini perpetui, perché la parte tolta dalla botte andava sempre ricolmata affinché il livello nel contenitore non scendesse troppo (cosa che avrebbe innestato processi di ossidazione negativi). 


 

Il documentario abbandona i tempi verbali al passato e va alla ricerca del presente del perpetuo. Andrea Mignolo, regista, film maker e fotografo era arrivato a Marsala durante la vendemmia 2019 con l’idea di fare un breve video, una decina di minuti in tutto, portando con sé una macchina reflex e un microfono: “Avevo sentito parlare dell’impegno dell’azienda De Bartoli - spiega Mignolo - ma sapevo poco degli altri tre e per giunta li ho coinvolti mentre erano in piena vendemmia. Ho pigiato rec e li ho fatti parlare. Ho scoperto anche io una storia fantastica”. Dai 10 minuti iniziali  si è arrivati all’ora abbondante e a un film scritto, girato e montato da Andrea e prodotto da Sanderen Films. Una volontà di non tralasciare nulla che Mignolo riconduce alle sue origini: “al vino - continua il regista - arrivo dalla ricerca dei legami tra prodotto, persone e territorio, dal mondo rurale che mi appartiene che è anche quello della mia famiglia. Il vino mi interessa non in chiave edonistica, ma come agente positivo della fertilità. Deve raccontare il presente, che è fatto anche di sostenibilità economica per le aziende che lo producono”.

 

La scelta del Marsalese è legata ai viaggi in Sicilia e a un’idea di fine-terra che questa parte di isola indubbiamente ha: “Marsala, come il Trapanese,  dà questa sensazione di arrivo in un perimetro in cui muoverti in libertà, che quasi ti protegge, ha campagne sterminate intorno e davanti solo il mare. Mi fa pensare ai luoghi delle opportunità dove tutto può succedere”. In effetti da queste parti di cose ne sono successe: Marsala è una città, un vino, l’approdo dei garibaldini, fu una delle città più ricche d’Italia grazie al commercio del vino marsala nel XIX secolo e ancor prima fu Lilibeo, la città fondata dai Fenici che lasciarono l’isola di Mozia per approdare sulla terra “ferma”. Oggi cosa rimane? 

 

Rimane un territorio dalla luce magica, con un riverbero pazzesco grazie ai basolati di pietra bianca delle strade, ma anche buio e umido nel suo ventre di calcarenite gialla. Ci sono bagli (masserie costruite intorno a un cortile, ndr) ristrutturati e diventati splendidi resort, altri che cadono a pezzi. Lo scenario anche del film è un po’ western, forse per la luce, per i muri sbrecciati, per il fare diretto dei suoi “attori”. Vincenzo Angileri ha una vita precedente da enologo consulente. Oggi è produttore con l’azienda Vite a ovest, ma la storia del perpetuo la conosce come le sue tasche, avendo avuto un padre enologo per 30 anni presso la cantina sociale di Birgi: “Era il vino più concentrato e più alcolico quello di pregio - racconta Vincenzo - e c’erano sempre una o due botti speciali che ogni stabilimento teneva da parte per i momenti importanti. Mio padre, quando è andato in pensione, ha comprato mille litri di “madre” (la base originaria del vino da perpetuare, ndr) del 1973, la mia data di nascita ed è su questa che abbiamo fatto nascere il nostro pre-British, Numero 73, fatto con Grillo e Catarratto. Mio padre lo chiama ancora stravecchio, come a Birgi”. Sono bottiglie che non riportano alcuna denominazione perché questa è vietata per gli ossidativi (ma esiste la Doc Marsala). Trattasi  dunque di “vini bianchi”; definizione piuttosto limitativa, in verità. “La questione del Marsala è che un produttore non vive con quello messo in bottiglia, ma con i volumi destinati alla cucina, fusti da 120 litri che hanno bisogno di appena quattro mesi di preparazione e affinamento. Queste sono le aziende floride del territorio. Ricordo uno stage che feci a Porto come giovane enotecnico presso le cantine Fonseca. Mi colpì molto il lavoro di rilancio che stavano facendo sull’omonimo vino portoghese e da allora mi chiedo perché da noi non sia possibile fare la stessa cosa”. C’è un punto però sui cui Vincenzo ha le idee chiare, un vino di qualità si fa a partire dalla vigna: “Invece - continua il produttore - si pensa che gli ossidativi siano solo un prodotto della cantina e delle tecniche di vinificazione. Invece la scomparsa dell’alberello marsalese a favore degli impianti a controspalliera ha fatto perdere all’uva calore e vigore”.


Anche Nino Barraco, dell’omonima cantina di Marsala, è convinto che la mancanza di prestigio e notorietà di questo vino dipenda dalla dissoluzione di un distretto e da un territorio che ha puntato ai volumi e non al valore: “Il messaggio del documentario - spiega Barraco - è positivo, perché offre una speranza a chi come me è partito dal nulla,  portando avanti un passato con rigore e rispetto. L’Alto grado che faccio ( il suo marsala pre-british, ndr) è tuttavia un un vino contemporaneo, che si lascia bere con piacevolezza e che sta bene in tavola con tanti piatti. Insieme non facciamo più di 10mila bottiglie, in pratica parliamo di un vino che non esiste e che esce dopo sette/dieci o più anni. Viene comunque venduto tutto, anzi la domanda supera l'offerta. Per questo mi auguro davvero che la visione del film spinga altri produttori a intraprendere la strada del Marsala autentico, ma per farlo devono partire dall’uva. Noi selezioniamo la nostra uva più bella per l’Alto grado”. Barraco ha portato qualche novità nel panorama seppur ristretto del pre-british: lui infatti lavora solo vini di annata (dunque né perpetuo né Soleras) e usa solo uva Grillo: “Volevo tracciare un mio percorso - continua il produttore -  e non solo emulare il lavoro di Marco De Bartoli. E poi ho lanciato una sfida a me stesso: dimostrare che anche gli ossidativi possono raccontare le caratteristiche di un’annata”. 


Diecimila bottiglie di pre-british fatte a Marsala vogliono dire solo diecimila bottiglie in tutto il mondo, un punto di partenza difficile su quale costruire un brand forte. Eppure mai come in questo periodo lo stile ossidativo raccoglie consensi. Un territorio vitivinicolo su tutti è quello del Jura in Francia, lanciatissimo su diverse tipologie che variano a seconda della permanenza “sous voile” (il velo dei lieviti indigeni) in botti scolme. Lo stesso Nino ricorda  la carta dei vini del ristorante Noma di Copenaghen con un paio di pagine interamente dedicate agli ossidativi francesi. Pierpaolo Badalucco, di pre-british ne fa addirittura due, uno da singola annata e un perpetuo, in tutto un migliaio di bottiglie con il marchio Dos Tierras che, come confessa, per lo più vengono bevute da lui, dalla moglie Beatriz e dagli amici: “Lo faccio per me perché mi è sempre piaciuto, in parte lo vendo, ma questo è un vino che non produci per profitto, costa troppo in termine di tempo e di impegno. Lo faccio anche per continuare la tradizione familiare, quella per cui io e mia moglie abbiamo lasciato lavori stabili in Spagna per fare i contadini qui. La situazione trovata però è di dimenticanza,  gli stessi marsalesi non conoscono la storia di questo vino”. Anche lui, una volta rientrato, ha provato a recuperare la “madre” più vecchia, ma quella di 21 anni era stata rubata e così la coppia ha iniziato con tre vendemmie consecutive per fare la prima massa. “L’eredità più grande lasciatami da mio nonno è stata la vigna di contrada Triglia, tornata viva, dopo anni di sistemici usati dagli affittuari - spiega Badalucco -  e nel film si vede, è letteralmente invasa dalle lumache”. Pierpaolo va proprio matto per gli ossidativi e ha in testa di produrre uno Sherry: “È un’idea di Beatriz che mi piace. Se va in porto lo terremo per noi. Di certo non mi metto a fare bollicine come fanno tutti”. 


Se questa storia ha un inizio ufficiale è databile al 1980, anno di uscita della prima bottiglia di Vecchio Samperi, il metodo perpetuo non fortificato di Marco De Bartoli. Il produttore, che segna profondamente il nuovo volto del vino siciliano, scompare nel 2011 e sono i figli a subentrargli. Sebastiano è uno di loro: “ Mio padre ha dimostrato con i suoi Marsala a quali vertici di qualità il territorio potesse aspirare. Un lavoro trentennale che io sento il dovere di portare avanti. Una volta Giacomo Tachis ( famoso consulente enologo e amico di Marco De Bartoli, ndr) disegnò un albero mettendo il Vecchio Samperi al posto delle radici e gli altri vini al posto dei frutti. Questo per sottolineare il forte legame che c’è tra etichetta e territorio”. Sebio, pur entrato in azienda a 19 anni, non ha mai messo in discussione la scelta paterna, ovvero che i vini ossidativi andavano fatti, anche se li bevevano in pochi: “Le difficoltà commerciali c’erano ma Marco era un visionario e alla lunga ha avuto ragione. Anche per questo mi piace il lavoro di Andrea, perché Pre-British è un film sul tempo, sul sapere aspettare e lo vedo anche come un omaggio alla memoria di un uomo, mio padre, che, in piena febbre da enologia industriale, fece diversi passi indietro e tornò alle origini”. Il prossimo passo potrebbe essere un riconoscimento ufficiale di questa tipologia: “Chissà che il documentario non ci aiuti - conclude De Bartoli - a porre al vertice della piramide della Doc Marsala proprio il pre-british come apice qualitativo della denominazione”.