ALBA. «A volte lo dico a mia moglie: “Quasi quasi me li taglio”. Ma poi ci ripenso: non sarei più io». Ad arco, più squadrati o affusolati in punta, alla Dalí. Hanno cambiato forma ma in oltre 30 anni sono rimasti sempre lì, il segno distintivo di Enrico Crippa. «Oggi un po’ mortificati dalla mascherina» si rammarica lo chef, seduto su uno dei divani del ristorante Piazza Duomo di Alba (Cuneo), che esattamente dieci anni fa ha portato alle tre stelle. «Li ho dall’87-88 questi baffi. Ricordo quando ho deciso di farmeli. Era dopo l’esperienza con Marchesi, quando lavoravo all’Hôtel Martinez di Cannes. Vidi una foto di Escoffier. Era al Ritz con una cinquantina di colleghi. E tutti, tutti avevano i baffi. Mi dissi: “Se i cuochi li hanno voglio averli anch’io!”». Determinazione, creatività, curiosità. «Sognavo di fare il giro del mondo per conoscere tutte le cucine. Due anni in Francia, due in Spagna...».
La passione dei viaggi l’ha messa in un menu ad hoc al Piazza Duomo. È vero che 20 anni fa Cracco, nel fare il suo nome alla famiglia Ceretto, disse “prendete lui, è più bravo di me”?
«Cracco ormai era a Milano e il signor Bruno (Ceretto, ndr.) gli chiese un consiglio: “Ce l’hai uno bravo come te da suggerirmi?”. “Come me no, più di me sì”, gli rispose».
È più bravo lei?
«Lo siamo entrambi, dipende da cosa ti piace. Se ti piace la cucina leggera e colorata allora andiamo a braccetto».
Come nasce un suo menu?
«Guardando la stagione, l’orto, i prodotti di fornitori e allevatori. E poi seguendo la mia filosofia di una cucina coreografica. A me piace che chi viene qui capisca subito dove si trova. I miei piatti sono diversi ma tutti bianchi, un foglio su cui disegnare. Ora ho tre menu: “Discover” per chi ha meno tempo e vuole spendere meno, “Barolo” tutto dedicato a questo grande vino, e “Il viaggio”, nato durante la pandemia per far viaggiare le persone con i sapori. Con il nero di seppia e la polenta bianca sei in Veneto, con il merluzzo con latte di cocco e basilico all’anice voli in Thailandia. Questo è il concetto, poi i piatti cambiano a seconda di stagionalità e disponibilità dei prodotti».
Fa sempre schizzi dei suoi piatti prima di realizzarli?
«Meno di un tempo perché ora ho le idee più chiare sull’impiattamento, ma un accenno sì».
Il piatto più richiesto?
«L’insalata (Insalata 21... 31... 41... 51..., composta da un centinaio di erbe e fiori, ndr.). Ho provato a toglierla dal menu ma è stato impossibile. Contiene tutte erbe coltivate nel nostro orto ma che fanno viaggiare: senapi giapponesi, origano messicano, foglioline di nepetella. Ad ogni pinzata il sapore ti trasporta ovunque, ma risveglia anche ricordi. Ed è lì che ricevi i complimenti più profondi. In cucina si cerca la madeleine di Proust. Le persone ormai sono poco abituate a parlare e qui capita che si aprano, ridano, piangano. A volte percepisco tensione in una coppia quando entra e durante la cena mi pare di sentire che si stemperi. Magari all’uscita rilitigano eh, ma a me piace fantasticare, e pensare che una cena possa riallacciare i fili».
La cena più emozionante che ha cucinato?
«Quelle in occasione delle visite o mostre di artisti come Francesco Clemente, Marina Abramovic o Patti Smith. Si è creato un legame. Qual è la cucina più buona? Quella della mamma si dice, perché la mamma conosce i tuoi gusti e ti asseconda. E quando ti piace la persona per la quale cucini e ne conosci i gusti è più facile farla felice. Sono state cene speciali. Patti Smith è entrata in cucina a cantare, Marina Abramovic veniva trattata da tutti con cautela, ma con me era molto alla mano. A volte gli chef sono paragonati agli artisti. E io penso che un cuoco sia uno che fa da mangiare, ma anche che siamo ancora più artisti degli artisti perché il nostro piatto è unico e il cliente, mangiandolo, può impossessarsene, entrarci dentro. Ma speciali sono anche le cene divertenti con gli amici».
Come si comporta con la sua squadra?
«Bastone e carota. Qui la faccia ce la metto io. E in un tre stelle non puoi sbagliare. Gli schiaffi e le pedate che ho preso io oggi giustamente non li dai ma se fai un errore te lo faccio notare. Quello che ripeto è: “L’ultima cosa che voglio fare è arrabbiarmi”. Ma puoi star sicuro che se ti faccio un cazziatone è perché te lo sei meritato. E comunque ora mi arrabbio meno. Perché evidentemente sbagliamo meno. Ma anche la forma conta. “Ciao chef”, mi salutano a volte. Ciao a chi? Mia nonna diceva che troppa confidenza fa perdere la riverenza. Vero. Con il mio secondo ci conosciamo da una vita e magari fuori gli scappa di darmi del tu ma in cucina si torna al lei. Poi abbiamo bei momenti di condivisione, come la serata cassoeula che facciamo con tutta la brigata dopo la Fiera del tartufo. E se in un ristorante incontro uno di loro pago io la cena. Ma sul lavoro un po’ di distanza ci vuole. E poi queste forme di educazione sono troppo belle. Io se mia moglie al ristorante si alza, faccio il cenno di alzarmi. Una volta una signora di fianco a noi mi ha visto e lo ha fatto notare al marito».
Tra i suoi colleghi c’è chi dice che oggi i giovani hanno meno passione di un tempo e preferiscono il weekend libero a questo mestiere. Cosa ne pensa?
«Qualcuno a cui ancora interessa lavorare c’è. Poi certo, è tutto cambiato. Ai miei tempi a 16 avevi finito la scuola e lavoravi, e se eri uno sveglio, che rubava con gli occhi, a 20 avevi già 5 anni di esperienza e potevi essere capo partita. Ora i ragazzi a 25-26 anni hanno poca esperienza di cucina. Io sono stato per 3 anni all’Hôtel Martinez e per 3 anni sono stato chiamato l’italien. Quando sono andato via Willer mi ha detto “ciao Enrico”. “Ma allora lo sa come mi chiamo!” ho pensato. Mi è quasi venuto da piangere. Ma dopo Marchesi lui mi ha formato tantissimo».
Dice di avere tre stelle sulla carta ma non nella testa, come stimolo per non sedersi. Mai avuto paura di perderle?
«Non ci penso, quello a cui penso è superare sempre le aspettative del cliente. Poi credo che uno chef sappia se sta rischiando o sta lavorando bene».
Dal lavoro allo svago. Vacanze di questa estate?
«In Italia. Io sono da sempre un grande fan del nostro Paese, non l’ho riscoperto con la pandemia. Sono molto nazionalista, peggio dei francesi. Difendo l’Italia delle macchine, della cucina, della moda. Abbiamo solo un difetto: siamo poco patriottici. Ma io no, anzi, quando ho tempo mi ritrovo a guardare chi ha preso onorificenze tipo cavaliere della Repubblica o del lavoro. Mi piace molto».