Non schernisce, anche se potrebbe sembrare. Ascolta per capire su cosa ti stai interrogando, ha occhi buoni che saettano attenti, espressione apparentemente cupa pronta ad aprirsi in sorrisi che sembrano abbracci, dosati per non sprecarli. Franco Palermo è un uomo di poche parole ma buone. Poeta, studioso di arti marziali, terzo dan di karate, è il caposaldo della panificazione romana. E lo è senza la minima ostentazione. Anche adesso che affianca con una consulenza fissa Pizzeria di Quartiere, a Roma nel popolare e popoloso quartiere di Pietralata, stavolta formando come è solito fare nel mondo del pane il pizzaiolo Enrico Varani. Eppure nei ricordi di Palermo la pizza arriva prima del pane, “quando avevo dodici anni andavo con i miei in vacanza a Guardia Piemontese, un paese in Calabria animato dalla comunità valdese. C’era un napoletano che ogni estate arrivava con due camion, in uno viveva con la famiglia e nel secondo faceva le pizze. Ero ragazzino e mi piaceva osservarlo e aiutarlo”.

La pizza poi è rimasta nella memoria, la sua vita è stata dedicata al pane: “Ho cominciato quaranta anni fa con un amico, Flavio De Cagno. Facevamo il pane in un laboratorio a Monteverde Vecchio; loro portavano il pane solo fuori, non c’era vendita diretta. Noi arrivavamo alle undici del mattino, pulivamo le macchine e impastavamo, entravamo quando i fornai andavano via. Il nostro pane lo portavamo nei negozi di alimentazione naturale - racconta con semplicità ciò che segnò nella Capitale l’arrivo del pane a lievitazione naturale - Era un pane con farina biologica”. Già appassionato di pane Palermo ricorda come il viaggio del suo amico in nel sud della Francia sia stato un innesco: “Era andato in un monastero sui Pirenei fondato da Lanza del Vasto, un allievo di Gandhi. Lì ha cominciato a fare il pane con il lievito naturale, una micca francese da due chili. Al suo ritorno abbiamo iniziato a farlo insieme”.
Un amore mai scemato quello per i grandi pani, per dimensioni e per il sapore e il sapere che portano nell’impasto. “Abbiamo aperto il panificio insieme a via Casilina”, era il 1989 quando il Bio Forno iniziava a sfornare, portando nelle buste il valore della cooperativa e della crescita umana del singolo che avviene nella condivisione. Da allora Palermo non si è mai fermato, avvolto in una nuvola di farina che non fa ombra e non crea mistero, ma lo definisce nel silenzio delle parole. Lo racconta fra silenzi che non sono vuoti, così come gli alveoli non sono mancanze ma essenze di lievitazione.

“Il pane l’ho usato, è stato il mezzo per aiutare. Quando ho aperto il forno sono venuti a imparare persone che avevano problemi. - impegno che prosegue anche dopo la chiusura del suo forno - Qualcosa ancora lo faccio, ho assunto nei panifici dove sono andato”. E se il pane è nutrimento primario, con lui che insegna diventa nutrimento per lo spirito, mezzo per crescere come persona. Palermo ha la capacità di far lievitare non solo gli impasti ma le persone, farle crescere alimentandole con pieghe di conoscenza condivisa, gocce di poesia ed ermetismo. Non è insegnare il suo, ma lasciare che si impari: “Il pane si abbandona nel silenzio, nel silenzio del forno. Si guarda, si osserva e piano piano si acquisisce. Non c’è nulla da insegnare, chi viene guarda e impara. Trasmetto le competenze tecniche verbalmente, ma sono importanti gli spazi tra le lettere”, come i tempi fra un impasto e la lievitazione, “ a ogni giro di vasca cambia il suono se lo ascolti”.
“Farina, polvere marina / impasta quanto basta per tutti / la formatura è di natura con l’ombra di mano. / Lievita, lì è vita” recita nel tono pacato che lo distingue, non la alza la voce per farsi sentire, lascia che lo si ascolti. “Lievita, lì è vita” ripete, a sottolineare l’importanza del lievito, del luogo, del momento, del gesto, del non perdere l’essenziale. “Ho imparato con il tempo, sbagliando e studiando. Lo studio aiuta a limitare gli errori”. Raccontato da lui sembra semplice fare il pane, dove per semplice si intende l’etimologia: senza pieghe che nascondono. Come se le uniche pieghe fossero quelle date agli impasti, luoghi in cui custodire la preziosità del gesto, fisico e intellettuale. Una semplicità che bisogna essere in grado di raggiungere. “La prima cosa è l’utilizzo del lievito naturale, i rinfreschi per renderlo più forte. Messo con farina, acqua e un po’ di sale si fa l’impasto. Si lascia riposare e si fanno le performe, dopo si forma definitivamente il pane nei cestini o fra i canovacci; quando è giunto a lievitazione si inforna”. Maestro della panificazione riconosciuto dai grandi, un nome che al pubblico forse dice meno di tanti mediatici che con lui si confrontano o si sono confrontati, da lui sono passati. “Mica è vero. Ero il più grande, ho iniziato prima. Forse mi sono dedicato agli altri, quando viene qualcuno gli sto appresso, non lo abbandono”. Non è modestia, è naturalezza del portamento, permettere che la grandezza gli venga riconosciuta senza appuntarsela da solo sulla spalla. “In questi anni sono stato sempre sul pezzo a lavorare, tutti i giorni. Sono attento a quello che mi succede intorno” e con sguardo discreto ma affilato accarezza tutti i dettagli, anche di chi gli fa le domande.

Se farina, acqua e lievito da una parte fanno il pane, dall’altra fanno anche la pizza. E dopo tanti allievi panettieri e felici progetti che con lui hanno preso il largo, questa volta affianca un pizzaiolo, Enrico Varani a Pizzeria di Quartiere, aperta dal 2015 ma ora rivoluzionata. “Di diverso c’è la stesura. E nell’impasto per la pizza non si usa il lievito naturale, ma quello di birra. Abbiamo modificato le farine verso una scelta più naturale e biologica - prosegue Franco con il tono che suona rivoluzione - Un chilo di pane cuoce un’ora, la pizza in secondi. Il pane si cuoce col calore residuo del forno, si inforna la mattina visto che il forno mantiene una certa caloria: resta a 230/240°C e bisogna anche stare attenti a non farlo avvampare, aprire subito la parata del forno”. Il pane in pizzeria? “Ecccerto, anche il pane che prima veniva comperato. Gli ho portato il lievito, lo hanno attivato e lo fa Enrico”. Pane che serve per le bruschette, per il pangrattato nelle panature dei fritti e anche nel dolce, iconico il pane al cioccolato di Palermo qui viene impiegato per il tiramisù, al posto dei savoiardi. “Ho deciso di collaborare con questi ragazzi perché conosco Giulio (uno dei soci) da tanti anni e poi qui a Pietralata c’è il fiume. A me lo scorrere dell’acqua quieta, mi dà un senso di pace. Enrico è stato un allievo disciplinato” racconta dei mesi in cui gomito a gomito hanno rivoluzionato la pizza a Pietralata. Ma lui è uno che non abbandona e la sua non è solo una consulenza, ma fianco e spalla per crescere.
“È la magia, quello che ci mette il chicco nell’impasto a determinare come viene la pizza” secondo Enrico Varani, il pizzaiolo. Già da cinque anni che lavorava qui e da tre anni e mezzo responsabile: “Prima facevamo la pinsa con le farine già pronte. Era tutto più semplice, non ci vuole grande tecnica visto che dentro c’è già un agente lievitante. Metti acqua, un po’ di lievito e va da sola”. Ma quei sacchi sono scomparsi ed è comparso Palermo inizialmente con il pane: “Ce lo portava in regalo, un pane al cioccolato che fa un suo allievo. Poi mi ha regalato il suo lievito che rinfresco ogni giorno, il lievito di Franco” - “È il tuo lievito ora” in uno scambio denso di riconoscenza e complicità. “Grazie a Franco mi è nata la curiosità per le farine - prosegue Enrico - e con lui ne abbiamo ordinate di nuove, ora ci riforniamo da Molino Rosso e il Molino Paolo Mariani. Mi ha dato un impasto suo per fare la pizza, poi con Daniele Pecci abbiamo lavorato sui condimenti delle pizze”. La firma di Palermo torna nel silenzio, un altro suo allievo. “Ho mischiato un po’ di tutto cercando di fare una cosa mia. Prima era un lavoro schematico, adesso gli impasti non vengono tutti uguali, ci devi mettere la mano”. Come annunciato Enrico ha iniziato a lievitare le sue idee, “anche su suggerimento di Andrea ho iniziato a fare un impasto con un polish. Da una base di kefir a latte vaccino crudo preso da un contadino e rinfrescato con latte di capra e semi di lino interi lasciati a bagno, insieme farina di kamut e integrale, farina di farro e una parte di grano tenero. Questo impasto lo usiamo per la focaccia e le pizze tradizionali, quelle in cui si sente il sapore dell’impasto come margherita o marinara”, infatti per quattro tipologie è possibile scegliere la base.

Ciò che esce dal forno di Pizzeria di Quartiere chiede la resa, non è né napoletana né romana, è una pizza con lunga lievitazione da farine italiane e biologiche macinate a pietra e cotte nel forno a legna che vede in menu tutte le classiche, ma non la capricciosa, e le ‘pizze di quartiere’ rivisitazioni concrete nei sapori. “Ai panini ci stiamo ancora lavorando, il nostro obiettivo è produrli noi ma ora manca il tempo. Il pane per le bruschette lo facciamo noi con il lievito naturale, lo usiamo anche per il pangrattato e nel dolce. A brevissimo voglio fare la pizza in teglia, una pizza quadrata a mattonella: stiamo a Pietralata, sarà una mattonella 20x20 con impasto diverso con più acqua e tante ventilazioni”. Non solo di farine e lievito, Varani ha imparato da Palermo anche le poche parole quando gli si chiede come sia stato lavorare con lui: “Bellissimo”. Solo pungolato prosegue: “Vedi l’amore che ci mette, come tocca le cose, come le fa. È questo il bello, vedere come si dedica e un po’ ho imparato anche io. Si è innescato un processo di cambiamento, in me come persona e sul lavoro, nel cambiamento di amministratore nella società, la novità di passare da un lavoro statico a Palermo. C’è un fermento, in tutti i sensi”. Sempre perché Franco Palermo non fa lievitare solo il pane. “Questo è, e sempre sarà, un laboratorio di panificazione. Io e i miei soci – spiega Emiliano Rossi – vogliamo che la passione e la competenza di Franco, incontrino sempre la voglia di imparare, studiare e sperimentare di tutti i ragazzi, sia della pizzeria che della cucina”.