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Razzo, il bistrot torinese che fa viaggiare tra sapori locali e asiatici

Razzo, il bistrot torinese che fa viaggiare tra sapori locali e asiatici
Una realtà giovane, aperta dal 2019. Pochi coperti, ma buone materie prime, idee e contaminazioni
2 minuti di lettura

Sale in un’orbita di sapori decisi e orientaleggianti, squarcia il muro della creatività con accostamenti arditi, passa attraverso soffici nuvole fusion e si staglia in un’atmosfera che unisce minimalismo, vintage e contemporaneità. Questo è Razzo, giovane bistrot torinese - aperto solo dal 2019 - che si trova immerso nella tranquillità di via Andrea Doria: poco traffico, ma allo stesso tempo a due passi dal centro e dalla vivacità di Via Lagrange. Un romantico dehor anticipa un interno che è un melting pot generazionale: un giusto mix tra la modernità degli arredi e delle stampe sui muri – una su tutte il ritratto provocatorio e un po' punk di Bud Spencer- e il vintage delle sedie da vecchia osteria e della tavola in legno, esaltata dall’assenza di tovaglia. Il tutto viene avvolto da un’atmosfera informale e intima, con pochi coperti (circa una ventina) e luci a led che illuminano i toni scuri della sala.

Una cucina parzialmente a vista, un grande bancone stile cocktail bar, e uno chef che lavora una materia prima selezionata da piccoli produttori. Tecnica e tanta voglia di stupire in un menù, sia alla carta che nelle degustazioni componibili a tre o quattro corse, che unisce la stagionalità alla creatività degli abbinamenti e che gioca con la cucina piemontese e italiana con spunti francesi, sudamericani e asiatici, frutto dei viaggi e del vissuto del cuoco in queste terre. Tradizione ed esotismo si mixano in piatti affascinanti e ben presentati, con protagonisti proteine animali e molluschi.

La carne è dolce e burrosa nei plin di giovenca, timo e aglio nero o in quelli di rossetti, zenzero e miso, nel panino al vapore con colombo, arachidi e maionese di miso, nel diaframma con patate, senape e timo o nel piccione, the al latte, bergamotto e fichi neri. I piatti di pesce sono un climax ascendente di sapori, dalla delicatezza delle tagliatelle di seppia, carciofi e crema di champignon al taco con ceviche di astice, dove la potenza del coriandolo e della salsa piccante sriracha thailandese viene smorzata dal cocco e dallo sciroppo sambuco, al tagliolino con granchio, zenzero e lemongrass servito nel caratteristico carapace. Fino alla tela “schizzata” dello spaghettone con astice, cavolfiore viola e lardo.

Una scala di sapori decisi che arriva allo zenit con i secondi, dalla trippa con capperi, olive e ricci di mare fino all’anguilla con crema di polenta, cavolo nero e caldarroste. I dolci ruotano attorno alla stessa filosofia di contaminazione: si possono perciò assaggiare un cioccolato bianco con canapa e yuzu, una millefoglie con cremoso allo zafferano e mango, una mousse di castagna e cacao con crumble di mandorla e fava tonka, una creme brulèe al tartufo bianco o una bavarese al cioccolato Dulcey, frutti di bosco e caramello al vino rosso. Se il menù è corto ed essenziale, ampia e articolata è invece la carta dei vini, che offre una nutrita scelta di etichette orange e naturali, italiane e non, ma anche di classici del territorio, da storiche cantine piemontesi come Giacosa e Conterno, a realtà più contemporanee come Enrico Druetto e i suoi prodotti artigianali del Monferrato. Una considerevole selezione è quella dalla Francia, a partire dalla Champagne fino alla Borgogna con le sue varie regioni e al Rodano, con blitz in Provenza e Languedoc, mentre piccola ma interessante è la scelta dal resto del mondo, come quella slovena rappresentata dalla Guerila Castra Meteri e dalla Malvasia “Tripla A” Cotar. Un appunto? Forse una maggiore empatia nel servizio non guasterebbe.