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Quel "raviolo aperto" di Marchesi che rivoluzionò la cucina italiana

Quel "raviolo aperto" di Marchesi che rivoluzionò la cucina italiana
Compie quaranta anni il piatto iconico del Maestro. Il racconto del suo allievo Davide Oldani: "Per celebrarlo lo metterò in carta al D’O”
3 minuti di lettura

L’anno appena trascorso è stato ricco di spunti gastronomici, ma portava in dote anche un compleanno importante passato sotto traccia, quello di un piatto icona della cucina italiana, probabilmente quello che meglio ha tracciato la linea di confine fra la cucina moderna e la contemporanea. Stiamo parlando del celeberrimo “Raviolo Aperto” di Gualtiero Marchesi che è diventato uno splendido quarantenne.

Il maestro Gualtiero Marchesi, scomparso nel 2017
Il maestro Gualtiero Marchesi, scomparso nel 2017 

Per capire bene la genialità di questo piatto dobbiamo fare un salto indietro nei coloratissimi anni ’80. La ristorazione era molto fast e poco slow e le abitudini alimentari degli italiani stavano cambiando velocemente. Le cucine domestiche lasciavano spazio a quelle nelle discoteche e anche i piatti erano spesso il frutto di un concetto di gastronomia pop che voleva rompere i legami col passato. Bandito quindi tutto quello che poteva richiamare la tradizione come sughi, zuppe e paste asciutte e luce verde a cremine, tartine e preparazioni pseudo francofone.

 

Non c’è da stupirsi se il proliferare della panna in cucina si afferma in questa decade. Il massimo dell’innovazione era rappresentato da improbabili richiami esotici come l’ananas sulla pizza, e dai gamberetti in salsa aurora, realizzata per lo più mischiando maionese e ketchup e non come la preparazione vorrebbe, ma questa è un’altra storia. Insomma, in questo guazzabuglio gastronomico era davvero difficile ‘creare’ nel senso accademico del termine.

 

Molte ombre e poche luci, una di queste era a Milano in via Bonvesin de La Riva, Gualtiero Marchesi con il suo ristorante omonimo aperto alla fine degli anni ’70, nel 1977, e già con due stelle Michelin a carico (la terza arriverà nel 1985). Gli anni ottanta furono di sperimentazione anche per Marchesi, che decise di andare controcorrente sfidando l’idea stessa della pasta ripiena, un classico della cucina italiana. L’idea di aprire un raviolo gli venne chiacchierando con un’amica che gli riferì che ad un banchetto, qualche giorno prima, aveva mangiato dei ravioli realizzati male che si erano aperti durante la cottura. Da lì il lampo di genio che lo portò poi alla realizzazione del piatto iconico.

Davide Oldani
Davide Oldani 

Uno di quelli che era già in brigata a quel tempo e che seguì passo passo gli sviluppi del ‘Marchesi pensiero’ è Davide Oldani, forse il più affezionato dei cosiddetti “Marchesi boys”, al punto tale da definirlo il suo secondo padre. Lo raggiungiamo telefonicamente per farci raccontare la genesi e i risvolti di uno dei piatti più famosi della cucina italiana.

 

Davide Oldani, il raviolo aperto compie quarant’anni. Qual è l’eredità lasciata oggi da questo piatto?

"Di totale genialità. Pensiamo che in quel decennio si frullava qualsiasi cosa, chiaramente anche i ripieni per le paste fresche. Carne, pesce o verdura erano ridotti dal mixer in farcia per il ripieno. Ecco, Marchesi ebbe l’intuizione prima di tutti di valorizzare la materia prima. Nella fattispecie il ripieno del raviolo era di pesce fresco, capesante, sogliole e gamberi e lui, per non rovinare il prodotto, decise di lasciarlo intero. Per la prima volta una pasta ripiena era privata della sua tradizionale farcia. Nacque così il raviolo aperto e a pensarci ancora oggi fu una vera rivoluzione".

 

Di questa rivoluzione ne beneficiò anche lei, chiaramente.

"Senza dubbio. Da lui ho imparato e mi sono formato, fu come un secondo padre, dico sul serio. Mi prese dalla scuola e mi fece fare tutte le tappe. Per me lui resta il Signor Marchesi, non l’ho mai chiamato chef. A quei tempi in brigata non si usava quell’appellativo e per l’eleganza che lo ha sempre contraddistinto ho proseguito a chiamarlo così. Davvero un uomo di un altro pianeta che spesso ha pagato dazio per il suo essere così avanti".

 

In che senso ha pagato dazio?

"Per la sua intelligenza gastronomica. Presentare un piatto così in un periodo in cui la trattoria la faceva ancora da padrona era avanguardismo puro. Un’evoluzione nella  rivoluzione, non sempre capita. Il raviolo non è un caso isolato. Potrei citare la terrina di fegatini al burro chiarificato invece del foie gras, o il mezzo astice coi cinque maccheroni. Sembrava appunto follia andare da Marchesi per cinque maccheroni, poi però avevi il mezzo astice sopra e la salsa dell’astice perfetta. C’era il gusto vero del prodotto e tutto quello che richiedeva il rispetto della materia prima. Lui era una persona intelligente e spesso non aveva a che fare con persone che avevano la sua eleganza e il suo quoziente. In questo senso ha pagato dazio, non è stato immediatamente capito.
Per meglio spiegare, quando lui tornò dalla Francia e aprì il ristorante non c’era neanche una pasta in menù. Impossibile in un ristorante in Italia non avere pasta in carta, lo presero per un folle. Conservo ancora gelosamente quel primo menù come tributo del suo pensiero per noi giovani cuochi dell’epoca".

 

Le capita mai di riproporre in carta il raviolo del suo mentore?

"Le do una notizia. Quest’anno il D’O compie vent’anni e vorrei fosse un anno di celebrazioni. Mi piacerebbe con i miei ragazzi trasmettere agli ospiti che ci verranno a trovare in quest’anno particolare, tutta la nostra passione, con un occhio rivolto al futuro e alla sostenibilità, ma con uno sguardo sul passato, quindi sì, perché no. Il “Raviolo aperto” farà capolino fra i menù dei vent’anni del D’O, per celebrare anche i miei quarant’anni di storia col Signor Marchesi".

 

Una gran bella notizia in anteprima! Naturalmente il Raviolo aperto in versione tradizionale?

"Non potrebbe essere diversamente, ha innovato già tutto lui".