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Da Materia, a Cernobbio, nel segno di una ristorazione inclusiva

Da Materia, a Cernobbio, nel segno di una ristorazione inclusiva
La nuova casa del cuoco per tanti anni associato al Noma, che parte dalla brutalità di una cucina concreta e la ricama con eleganza
3 minuti di lettura

Ci sono particolari che non sempre si raccontano, come ad esempio il fatto che in un ristorante noto per rappresentare una cucina tra le più avanguardiste (e di conseguenza dato per scontato come esclusivo) possano convivere con la massima naturalezza tavoli ai quali viene servito un menu ad alto tasso di complessità gustativa con altri ai quali si ordinano piatti squisitamente normali. Accade a Cernobbio, sotto lo sguardo sorridente di Ambra Sberna che governa la sala di Materia. Non è certo questo il tratto distintivo del ristorante, né è l’unico caso, ma si tratta di un dato emblematico in relazione a una possibile naturale (e forse anche necessaria) evoluzione dell’accoglienza. Un mestiere a tutto tondo di cui si dimentica troppo spesso l’essenza.

 

Davide Caranchini, chef, spiega come vede le cose: “Noi siamo da sempre un ristorante inclusivo. A pranzo c’è spazio sia per il gourmet appassionatissimo sia per il signore che lavora nell’ufficio qui vicino e vuol fare una pausa veloce: in quel caso la proposta è più semplice ma viene trattata allo stesso identico modo. C’è gente che ci portiamo dietro da quando abbiamo aperto: con queste persone si è creato un bellissimo rapporto, rappresentano una sorta di zoccolo duro. Si sentono liberi e in realtà a noi interessava proprio il concetto del dare ristoro nella sua accezione più pura e in due sensi, uno prettamente fisico e legato al mangiare in sé e l’altro più mentale, in cui trovare delle risposte a delle domande.” Una dimensione informale e allo stesso tempo all’altezza di un grande ristorante, quella di Materia, luogo di fedele pellegrinaggio da parte dei puristi che l’hanno eletto tra i preferiti per una cucina che, come si dice in gergo, spinge. In realtà Davide spinge fino a un certo punto, perché un cardine del suo pensiero gastronomico è certamente la ricerca del gusto “che è alla base di tutto. Cucino in maniera naturale e non forzata, cerco solo di migliorare senza incanalarmi. Qualcuno ha definito la mia cucina di brutalità elegante; la matrice è sempre quella, mai golosa, piaciona o troppo confortevole, ma con una connotazione meno impattante di prima. È questa la via che stiamo seguendo. Con una regola che fondamentalmente è legata al concetto di less is more”.

 

Di sicuro i piatti di Walk on the Wild Side, il percorso di degustazione più emblematico, sono un esempio di ponte che può mettere d’accordo tanto gli accoliti poco avvezzi ai compromessi quanto chi vuole avvicinarsi meno timidamente a un’interpretazione originale. Certo non si tratta di gusti privi di complessità, ma quel che li contraddistingue sono elementi come essenzialità, nitore e concentrazione. Basta nominare alcuni piatti su una dozzina: tartare di cervo, pesto di alghe e bergamotto, ricci di mare; la paradossale finezza esplosiva dell’insalata alla griglia con tartufo nero; i bottoni di selvaggina ripieni di lepre, cervo e cinghiale, serviti in un brodo realizzato con funghi, muschi, frutti di bosco, corteccia ed erbe; verso la parte “dolce” una crema pasticciera ai funghi porcini, riduzione di frutto della passione, topinambur croccante e sanguinaccio vegetale di carciofi ottenuto dal vegetale ossidato con l’aggiunta di cacao.
 

Davide, attraverso questo menu, spiega bene la sua evoluzione: “È stato scritto anche troppo di me, soprattutto perché sono stato per troppo tempo associato al Noma anche se non mi ci sono ci mai sentito così vicino. Questa cosa l’abbiamo tutti un po’ sofferta, ma adesso finalmente siamo riusciti a distogliere l’attenzione focalizzando sul pensiero che c’è dietro, con i suoi tanti riferimenti culturali e geografici, oltre alla esperienze pregresse. Ho sempre cercato di creare un’identità forte, solo che adesso sono più consapevole dei miei mezzi. C’è stata un’epoca in cui sentivo il bisogno di strafare: ti ritrovi a spingere più che puoi senza avere il controllo dei freni, cercando di stupire. Adesso ci sono altre dinamiche e altri scopi, sto cambiando in modo naturale e senza forzature, con più consapevolezza e una maggiore maturità. Con l’idea che qualunque etichetta che ti venga applicata sia un limite: sono fatto così". Ed ecco quindi un messaggio che vuole in qualche modo far luce e far cultura su un territorio attraverso il cibo: “Il 99% delle persone conosce il lago ma non considera che è circondato da montagne e boschi, la parte selvatica è molto importante. Il titolo del menu nasce dal brano di Lou Reed; lessi una vecchia intervista in cui lui spiegava che il testo era stato scritto per far conoscere alle persone normali una realtà che non avrebbero mai avvicinato. Io ho voluto far mangiare la selvaggina in modo differente. Un percorso che prevede leggerezza, quando di solito ci si attendono grassezza e opulenza: abbiamo voluto andare controcorrente, con la carne che quasi lascia spazio alla verdura”.

Non bisogna dimenticare che Davide Caranchini è un cuoco intellettualmente vivace, tanto che al momento di scegliere la scuola alberghiera “mamma dovette quasi litigare perché mi volevano indirizzare verso gli studi classici. Ma a me piaceva studiare per i cavoli miei. Durante la pandemia per esempio ho chiesto ad alcuni amici laureati in filosofia se esistesse un testo per comprendere le avanguardie del primo 900, per capire come il cibo possa essere figlio di un pensiero e non più solo di una tecnica.” E termina citando il suo recente intervento a Madrid Fusión: “la modernità risiede nel pensiero, puoi spendere quel che vuoi in attrezzature e tecnologie, ma senza un pensiero ricopi cose già fatte. La vera innovazione dev’essere dentro di te, devi avere la mente libera. E tutto dev’essere finalizzato al gusto. Non c’è effetto ludico, perché l’esperienza è fatta di gusti, consistenze e profumi.” E materia.