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Picchi, un anno dalla morte: il suo ricordo dal Cibreo all'oriente

Fabio Picchi a sinistra
Fabio Picchi a sinistra 
Non solo grande cuoco e ristoratore, ma anche scrittore e imprenditore: riferimento della tradizione gastronomica toscana. La sua eredità
2 minuti di lettura

Un anno fa ci lasciava Fabio Picchi, il calendario della sua vita aveva girato solo 68 volte, indubbiamente intense ma pur sempre poche. Firenze e il Cibrèo, ma non solo loro, restavano orfani di un mattatore istrionico e fondatore di un’istituzione cittadina in fatto di sapori e accoglienza.

Fabio Picchi
Fabio Picchi 

Sotto i capelli bianchi scompigliati sorridevano gli occhi di un uomo capace di reinventarsi fino a definirsi, di cucirsi addosso la giacca di cuoco e vestire gli abiti di scrittore e imprenditore, con la stessa disinvoltura. Era intriso di quel misto fra aulica fiorentinità e schietta "maremma bucaiola" che nei toscanacci autentici non offende, ma sorprende. Picchi aveva cercato e sperimentato prima di diventare il Picchi che, a un anno dalla perdita, rimpiangiamo. Così raccontava sé stesso: “Fabio Picchi nasce fiorentino il 22 giugno 1954 aspirando immediatamente, per il labronico cognome, alla cittadinanza e natalità livornese. Irrequieto nel suo percorso scolastico, perseguitato da un perenne e perentorio: ''Il ragazzo è intelligente ma non si applica…’.” Giovane irrequieto fin quando non trovò la scintilla dentro di sé, vagabondo tra la facoltà di Lettere e Scienze Politiche, prima di approdare nell’etere con il microfono delle prime radio libere fiorentine. La cultura e la mente se la sarebbe formata al di là dei rigidi schemi dell’istruzione, alimentando la curiosità con esperienze sempre nuove, facendo germogliare anche la passione per il teatro.

 

Era l’8 settembre 1979 quando la strada si dipanava sotto i suoi piedi, apriva il Cibrèo a Firenze con un prestito da restituire al padre, a mo’ di avvertimento per la necessaria responsabilità. Un ristorante che in breve sarebbe diventato riferimento e sinonimo di accoglienza, un luogo di cultura ai fornelli che nel nome rendeva omaggio a una delle ricette della tradizione toscana: il cibrèo, intingolo con rigaglie di pollo amato da Caterina de’ Medici.  “I nostri menu seguono principalmente il ritmo delle stagioni: sembrano fermi, in realtà si muovono fra l’inverno e la primavera, l’estate e l’autunno, si muovono ogni mese, ogni settimana, ogni giorno”. Il pensiero condensato intorno a una stufa a legna, l’alternanza del tempo nelle ricette della tradizione con "unnonniente" di nuovo. La tradizione gastronomica fiorentina aveva con lui trovato casa, lontana e diversa dai locali per turisti.

L'ingresso del Cibreo
L'ingresso del Cibreo 

Dinamismo vulcanico e anima indomita, non potevano bastare quattro mura e una stufa a legna per placare il Picchi. Per primo affiancò al ristorante la trattoria, il Cibreino, dove il diminutivo stava solo per i prezzi contenuti, non per la qualità ridotta. Una proposta veloce, ma non sciatta, un modo per avvicinare anche i giovani alla sua cucina, come se il portafogli meno gonfio non dovesse essere ostacolo per conoscere e godere della cultura culinaria con cui imbibiva i piatti. Poi, dieci anni dopo l’apertura del Cibrèo, il Caffè e nel 2003 la grande innovazione che coniugava l’amore per la moglie Maria Cassi, attrice, la passione per il teatro e la vita di cuoco: il Teatro del Sale.

 

Stargli dietro non deve essere stato facile, anzi. Le idee arrivavano e impazzavano, le intuizioni divampano in lui come infatuazioni destinate a non passare ma divenire amore. Nel 1988 si era innamorato a Kyoto di un piccolo ristorante, si era appassionato dei sapori orientali e degli antichi saperi racchiusi nelle cucine di Cina, Corea e Giappone. “In cucina si parlano da sempre tutte le lingue del mondo”, nacque così Ciblèo Tortelli e Ravioli. Una nuova cucina tosco-orientale, non un esercizio di stile il suo ma il sottile mescolamento di ingredienti toscani con tecniche e cotture orientali, a monito e memoria di come l’Oriente tutto non sia stato nella cultura poi così lontano negli sguardi, e nelle menti aperte.

 

È trascorso un anno da quando quel toscanaccio del Picchi ha lasciato la moglie Maria e i quattro figli, ne è passata di acqua sotto i ponti d’Arno ma non è cambiato è il vuoto lasciato nella cucina fiorentina. Un’eredità possente destinata alla prosecuzione nelle mani del figlio Giulio, cui aveva già consegnato il timone per dedicarsi a C.Bio (Cibo Buono Italiano e Onesto) bottega in cui i fornitori del ristorante convogliavano le merci anche per la vendita al dettaglio.

 

Un testamento in cui la cucina, per lui, era un atto di amore e responsabilità. Il resto è scritto in quel sorriso beffardo e romantico sotto i baffoni bianchi, nello sfavillio degli occhi seguiti dal rapido e deciso gesticolare delle manone che accarezzavano sogni e plasmavano realtà. Scritto con l’indelebile inchiostro trasparente della memoria fra le righe dei suoi insegnamenti.