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Il Gatto nero, la trattoria toscana diventata il salotto gastronomico di Torino

Il Gatto nero, la trattoria toscana diventata il salotto gastronomico di Torino
Sulla cresta dell'onda da quasi 100 anni senza cedimenti. Cucina tradizionale, grandi materie prime e pesce, questa la formula che ha conquistato la città
2 minuti di lettura

"Vede, quello è il tavolo dove sedeva sempre l’Avvocato”. Il tono è evocativo, ma non nostalgico, di chi è orgoglioso del suo passato, eppure non ne resta prigioniero. E infatti è l’unico aneddoto “storico” che riuscirete a strappare ad Andrea, terza generazione dei Vannelli alla guida del Gatto Nero, a tutti gli effetti una istituzione della cucina italiana. Ma come ha fatto una trattoria (per di più toscana) a diventare uno dei salotti gastronomici di Torino?

 

Per la qualità dei piatti, certo. Non si resta sulla cresta dell’onda per quasi 100 anni senza classe e sostanza. E anche per aver fatto conoscere e amare la cucina di pesce ad un pubblico, quello piemontese, abituato tradizionalmente solo ad acciughe e baccalà. Ma c’è di più. Ed è forse la comprensione nel profondo dello spirito torinese. Da un lato, a voler essere un po’ retorici, per l’adozione di un’etica del lavoro innatamente sabauda, un lavorare sette su sette come se fosse la cosa più naturale del mondo (e quante resistenze, nella prima generazione, quando arrivò l’obbligo del giorno di chiusura e delle ferie estive). Infine, ma non meno importante, per l’attitudine, anch’essa tipicamente torinese, acquisita nonostante le origini toscane: quella all’understatement, al minimizzare, quasi al pudore di non volere apparire.

Di quest’ultimo aspetto ne è rappresentazione plastica la stessa sede del locale, fin dall’esterno: niente insegna, finestre oscurate, un campanello, quasi da circolo privato. Varcata la soglia, si entra in una macchina del tempo, o meglio, si viene trasportati fuori dal tempo: cemento e mattoncini rossi, tavoli distanziati, iconici gatti alle pareti, tante bottiglie, sedie di design, il grande camino. Atmosfera demodé, orgogliosa di esserlo. Del resto, a guardare le vecchie foto, tutto sembra essere rimasto immutato fin dal 1958, quando il Gatto nero si trasferì qui, nella sede di Corso Turati, ai margini dell’elegante quartiere di Crocetta.

 

Ma facciamo un passo indietro, agli anni Venti, quando tutto iniziò. Settimo Vannelli era allora un giovane cuoco di belle speranze, che dopo essersi fatto le ossa nella pizzeria del cognato (prima, a 11 anni, lavapiatti, e poi cameriere) aveva scoperto il mondo della cucina durante il servizio militare, come aiuto cuoco in una caserma dei carabinieri. Soldi pochi, in quegli anni. Ma si risparmia ogni centesimo. Quel tanto che basta per guardarsi negli occhi con la moglie Annunziata, e decidere di fare il grande passo: aprire una propria trattoria. La scelta del locale da rilevare cade su una vecchia fiaschetteria in centro, a due passi da piazza Carlina, una quarantina di coperti e (anche qui) mattoncini rossi a vista.

Si inizia un po’ alla buona, per non fare il passo più lungo della gamba, con la spesa al vicino mercato, e prodotti in prevalenza piemontesi. Ma le cose vanno subito bene, si ingrana la marcia e a tavola si inizia a parlare toscano, con fagioli al fiasco, fiorentine, salumi del Casentino, fegatini, e l’immancabile pane sciapo di Altopascio, il paese della lucchesia originario della famiglia. Quasi cibi “etnici” per la conservatrice Torino, che, forse anche per questa ventata di novità, ne viene subito conquistata. Cucina schietta e sapori rustici per appetiti robusti, questo spirito della trattoria (come di ogni trattoria) all’inizio. Ma ben presto la fama del piccolo locale cresce, inizia ad arrivare la clientela borghese, e infine anche quella nobiliare. E’ inevitabile quindi aggiustare il tiro: materie prime di ancora maggiore qualità, preparazioni più raffinate, ricette più elaborate (evoluzione che, decenni dopo, hanno fatto quelle che oggi definiamo “trattorie moderne”). Accanto ai tipici piatti toscani arrivano gli scampi alla brace e la sogliola alla mugnaia, gli spaghetti alle vongole e il salmone scozzese.

Sono anni di continua crescita che porteranno, nel 1958, all’esigenza di cambiare sede, con il trasferimento dal centro alla “periferia” di corso Turati. Un nuovo locale nulla viene lasciato al caso: ambiente arioso, illuminazione curata, il logo disegnato da Armando Testa. E una cucina che, in quel momento, è una delle più tecnologicamente avanzate d’Italia. Il salotto di cui parlavamo all’inizio è pronto: la grande sala rettangolare diventa teatro di riunioni d’affari ai massimi livelli, di festeggiamenti di compleanni e di proposte di matrimonio. In sintesi, diventa il luogo in cui bisogna andare nelle occasioni importanti. E, a giudicare dai numeri, ancora oggi è così.