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Carbonara, così l'ultima arrivata ha soppiantato i veri piatti della tradizione romana

Carbonara, così l'ultima arrivata ha soppiantato i veri piatti della tradizione romana
Fono a pochi decenni nei menù delle trattorie era assente, così come cacio e pepe e gricia, ora onnipresenti. Mentre sono quasi scomparsi piatti come cannelloni, gnocchi di semolino e fettuccine con le rigaglie
2 minuti di lettura

Se siete pronti a giurare che la carbonara, la gricia e la cacio e pepe siano sempre state ai vertici della cucina romana da tempo immemorabile, ebbene vi sbagliate. Basta andare indietro di poche decine di anni per scoprire che i piatti considerati più tradizionali erano altri e, quelle che oggi reputiamo le colonne portanti della gastronomia della Capitale, erano relegate a ruolo di parvenu a cui era concesso uno spazio minimo all’interno delle trattorie più veraci.

 

La memoria a volte fa strani scherzi e facciamo fatica a riconoscere che un intero universo culinario si è dissolto nel giro di un paio di generazioni e non ne sentiamo nemmeno la mancanza, mentre i piatti più tipici di oggi sono figli del boom economico. Lo spunto per ricostruire le vicende della cucina della Città eterna proviene dalla guida di Livio Jannattoni dal titolo Osterie della vita e dell’amore pubblicata 50 anni fa da cui emerge un ritratto piuttosto inedito della cucina tradizionale della Capitale. Iniziamo col dire che Livio Jannattoni non è esattamente l’ultimo arrivato: giornalista, storico e gastronomo scomparso negli anni Novanta, era considerato uno dei massimi esperti di cucina romana e laziale. Tra le altre cose, è a lui che si deve la ricetta dell’amatriciana presa a modello per il deposito ufficiale a livello europeo nel 2019.

Per capire cosa si poteva trovare nelle osterie basta scorrere la lista delle portate che “Settimio al Pellegrino” proponeva con cadenza settimanale: lunedì era il giorno di riso e indivia in brodo, bollito, polpette al sugo, stufato di manzo, osso di prosciutto stagionato con i fagioli; martedì: pasta e fagioli, minestra di verdure, pesce di paranza, umido, involtini, abbacchio al forno; giovedì: (ovviamente) gnocchi di patate con il sugo dell’umido, polpettone arrosto, teste di capretto o agnello; venerdì: pasta e ceci, spaghetti al tonno, spaghetti alle vongole, baccalà morbido con le cipolline o alla pizzaiola, pesce; sabato: risotto casareccio cotto nel brodo e condito con funghi e rigaglie di pollo, trippa, fegato; domenica: fettuccine casarecce condite con il sugo dell’umido o degli involtini, ossobuco, brasato, capretto o abbacchio, pollo ruspante. Per tutta la settimana erano sempre disponibili: brodo, gallina bollita, verdure, carciofi alla romana, broccoletti a crudo.

 

Questa ossatura culinaria viene ripresa con diverse varianti anche da altre osterie che basavano la loro cucina sulla tradizione romana e abruzzese, un territorio quest’ultimo che aveva lasciato un’impronta particolarmente forte nella città eterna. Nella lista di Jannattoni la carbonara si trova citata giusto un paio di volte nella guida senza grande trasporto perché viene ancora percepita come un corpo estraneo rispetto alla cucina laziale più ortodossa.

Questa situazione viene confermata anche dalla Guida ai ristoranti e trattorie d’Italia pubblicato nel 1961 dall’Accademia Italiana della Cucina dove la carbonara compare una sola volta tra le specialità segnalate nei ristoranti della Capitale, mentre gricia e cacio e pepe sono completamente assenti. La parte del leone la fanno invece l’inossidabile amatriciana, gli agnolotti, e soprattutto i cannelloni e le fettuccine. Ancora nel 1991, sempre Jannattoni, nel suo ricettario La cucina romana e del Lazio inserisce un capitolo che non lascia spazio a fraintendimenti «Spaghetti alla carbonara e altre pastasciutte quasi-romane» in cui si capisce fin dal titolo quale sia la considerazione per questo piatto che stava acquistando popolarità a scapito delle specialità più antiche.

 

Il segreto del successo della carbonara si può riassumere nella sua estrema velocità di preparazione, specialmente se confrontata agli altri piatti di pasta fresca, ma soprattutto per il gusto che richiama i tipici sapori anglosassoni come le uova e il bacon. Non è infatti un caso che molte ricette si trovino su libri e riviste in lingua inglese a partire già dai primi anni Cinquanta. Una cosa è certa: senza un apprezzamento così eclatante da parte degli americani, probabilmente la carbonara sarebbe stata condannata all’irrilevanza come tanti altri piatti inventati nel secondo dopoguerra.

 

Che la cucina sia in costante e naturale evoluzione non è una novità e tanto meno un problema, anzi, il fatto che ricette come la gricia o la carbonara siano entrate stabilmente all’interno di un assetto gastronomico già strutturato è un segno di estrema vitalità. L’aspetto curioso è vedere quanto siano rari gli esperti di cucina che sentono la mancanza dei rigatoni con le rigaglie di pollo o dei cannelloni alla romana, rispetto alle schiere di appassionati pronti a indignarsi di fronte a una carbonara fatta con la pancetta o un’amatriciana con un po’ di cipolla. Tutto sommato, anche la nostalgia ha la memoria corta.