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Di Mauro, chef non solo sul set: "Dovreste assaggiare la mia cacio e pepe"

Di Mauro, chef non solo sul set: "Dovreste assaggiare la mia cacio e pepe"
L'attore è protagonista di “Non morirò di fame”, storia di uno stellato che si ritrova a vivere per strada. "In cucina mi attrae la povertà della materia che acquista preziosità"
3 minuti di lettura

“Non morirò di fame”, al cinema in questi giorni, racconta la storia di uno chef stellato che si ritrova a a vivere in strada. È Pier, interpretato da Michele Di Mauro che torna a Torino alla morte della moglie dopo essere sparito per due anni, abbandonando tutti, anche la figlia adolescente. Fra i cassonetti Pier incontra il Granata (Jerzy Stuhr), un senza-dimora colto e sensibile che lo inizia al recupero del cibo buttato, dai cestini in strada alle verdure ai mercati generali ai prodotti in scadenza nei supermercati. Poco per volta lo chef recupera se stesso e le relazioni intorno a lui. Perché cucinare è un atto trasformativo, un prendersi cura di noi, delle persone che amiamo e del pianeta.

Come è cambiato il suo modo di cucinare dopo il film?

“Non sono cuoco provetto ma un po’, facendo questo lavoro, sono obbligato a cucinare: affitti casa e fai la spesa, il minimo indispensabile. Ora sono più accorto, ho una visione più attenta del consumo, faccio la spesa diversamente. Siamo abituati all’esubero e all’abbandanza senza argini. Io compro quello che serve. Se posso e ho tempo faccio scelte di qualità, se non posso anche con la spesa al supermercato o da casa, che putroppo succede, penso a cosa prendere e come potrò usarlo. Mi attrae la povertà della materia che acquista preziosità senza essere francescano o benedettino e ci sono cose che associate bene sorprendono. È importante non essere solo consumatori”.

 

C’è più attenzione allo spreco di un tempo?

“Sì ma si fa fatica anche se c’è la legge Gadda che regola sprechi e donazioni. Molti ristoranti buttano perché è più comodo. Dipende molto dalla sensibilità individuale e sociale di ciascuno, non si può obbligare qualcuno a fare le doggy bag anche se sono state fatte molte campagne”.

(ph. Erica Fava)
(ph. Erica Fava) 

Durante le riprese era a dieta. Come è stato?

“È stata una doppia sfida perché ho perso 13 chili in 4 mesi per la serie “Call my agent”. Seguivo le mie tabelle. Con questo lavoro spesso mangi al ristorante, tardi o presto o salti colazione per essere sul set. Mi sono perso un po’ il piacere del cibo ma è stato un ottimo esercizio”.

 

Cosa ha imparato di concreto?

“Il regista Umberto Spinazzola è lo stesso di Master Chef e ha molta esperienza sul cibo. È stato bello essere seguiti da uno chef vero: Lollo (Lorenzo Careggio) di EraGoffi, da cui ho preso lezioni. Ho imparato piccole cose divertenti: ora so disossare una coscia di pollo e farcirla e so fare il ketchup. Se lo fai c’è una bella differenza con quelli industriali. E poi so tagliare le verdure”.

Quali sono le ricette venute meglio?

“I sedanini con pesto fatto con la barbetta dei finocchi. In fondo qualsiasi erba commestibile può diventare un pesto, come la rucola. Le cose non hanno vita breve, c’è vita nella materia finché la vedi. Poi la trippa e la fagiolata che stanno anche molto bene insieme, la bagna caoda che sembra semplice ma oltre a essere un piatto è un luogo, un mondo: tagliare la verdura fa la differenza, può diventare un cesto di fiori. Tutto ha un valore estetico. Ogni particolare è importante: luce, freschezza, temperatura, cose che diamo per scontate”.

 

Cosa hanno in comune messa in scena in teatro e in cucina?

“Si parte dalla materia prima che in teatro sono i testi e in cucina ingredienti; il regista prende in mano il testo per fare la sua elaborazione come uno chef, poi ci sono gli attori che incarnano l’elaborazione come una brigata. Poi altri ingredienti utili: luci, musiche, tutto ciò che serve a far vivere l’esperienza in teatro come a tavola. C’è la mise en place di tovaglia, posate, bicchieri, vino che è la messa in scena a teatro. Poi serve qualcuno che assaggi: un pubblico che possa essere sorpreso, convinto, spiazzato, deluso, il momento di applausi e fischi. Anche qui c’è chi prende una materia povera e la rende meraviglia, chi prende una meraviglia e non la sa trattare. Ci sono molte uguaglianze, posso assaggiare qualcosa di cui non so nulla, qualcosa di etnico, è un gustoso parallelo”.

 

E le differenze?

“Cambia il rapporto con la sazietà. È più facile essere sazi con il cibo che con la cultura. Se hai fame, un panino con la mortadella è una meraviglia mentre non sempre una commedia di Govi ti rende felice”.

 

Se ci invita a cena cosa cucina?

“Un pesciolino, magari un nasellino con porri, pomodorini, succo di arancia, piccatino da servire col riso. Mi piace fare una pasta cacio fatta bene. Ma senza la misura di nonne e mamme rischi di fare una roba da trattoria di basso livello”.

 

Il suo comfort food?

“Mangerei sempre le bistecchine impanate, è proprio quel gusto da bambino che vorrei a qualsiasi ora del giorno e della notte, che abbia fame o no. Ora sono a Milano per “Romeo e Giulietta” di Mario Martone e adoro la milenese con l’osso”.

 

Cibo e ambiente. Ci pensa mai quando mangia carne?

Ci penso molto, mangio molta meno carne di una volta ma la adoro. “Il mio regno per un arrosticino” parafrasando Riccardo III.