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Philippe Léveillé a Bologna: il bretone antidivo che esalta la normalità

Lo chef del Miramonti l'Altro di Concesio sarà tra i protagonisti dell'evento "C'è più Gusto a Bologna"
2 minuti di lettura

“L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Lo cantava il grande Lucio nel 1977, lui se l’è inconsapevolmente cucita addosso, e proprio nella Bologna di Dalla uno dei protagonisti sarà lo chef francese più italiano di sempre: Philippe Léveillé.
Bretone, 59 anni, serio, generoso, anticonformista nel pensiero e nell’espressione. Arriva in Italia dopo lunga gavetta all’estero. All’inizio degli anni’90 approda al “Miramonti” di Caino, in provincia di Brescia, della famiglia Piscini con la quale inizia il sodalizio lavorativo che proseguirà anche qualche anno dopo, quando si sposterà definitivamente a Concesio, sempre nel bresciano, per dar vita al “Miramonti L’Altro”. Qui Philippe si formerà sempre più come cuoco italiano, guidato dalla “chef resident” la signora Muffolini, madre di Mauro e di quella Daniela che nel 2003 diventerà sua moglie, come nelle favole più belle e con la quale porterà avanti il ristorante.

Philippe Léveillé
Philippe Léveillé 

Un uomo, prima che uno chef, che non ha mai dimenticato le sue radici, neanche dopo stelle e riconoscimenti. “Ho iniziato a quindici anni pulendo le ostriche in Bretagna. Mio padre era un ostricoltore. Ho fatto tutto da solo”. Philippe Léveillé è un portatore sano di gavetta, ci crede al punto tale da averne fatto una bandiera. Durante uno dei meravigliosi pranzi al Miramonti L’Altro, dopo il suo celebrato gelato alla crema, spiega la differenza tra mestiere e gavetta. Spesso si tende a pensare che quest’ultima sia rappresentata dalla fatica con la quale raggiungi e mantieni il successo. “Per quello ci vuole il mestiere” – mi disse – “Quello lo impari sul campo dopo anni di gavetta. Io non sarei nulla senza la mia”.


La gavetta è quindi, dal Vangelo secondo Philippe, la capacità di resistere ai colpi che la vita t’infligge. "Immagina di nuotare tranquillamente e quando meno te lo aspetti, il mare diventa burrascoso. La gavetta è la capacità di restare a galla fino a quando la tempesta non passa”. Forte di questa concretezza è stato sempre lontano dalla spettacolarizzazione che ultimamente permea questo ambiente, senza paura di sottolinearlo.
“Certi divismi, certi atteggiamenti, sono imbarazzanti. La gente che chiama lo chef “Maestro” quando esce in sala, manco fosse un santone. Noi non salviamo vite, facciamo solo da mangiare”. Lo chef di Concesio è talmente anticonformista da non avere neanche un ufficio stampa – “A che serve? Io davvero non lo capisco. Non siamo attori, siamo cuochi. Se qualcuno vuole il mio numero, me lo chiede e io glielo do e quando ha bisogno di parlarmi mi chiama. Se non posso rispondere quando vedo la chiamata lo richiamo io, mi pare normale no?”.


E di normale, in realtà, c’è ben poco se pensiamo ad uno chef di un ristorante con due stelle Michelin, che dopo una serata passata in cucina, dopo qualche ora di sonno, torna sui fornelli per preparare da solo la linea del pranzo, che chiude un giorno in più a settimana per dare uno stacco maggiore ai suoi dipendenti, che ha una brigata quasi esclusivamente al femminile in barba al patriarcato delle cucine professionali.
E se gli chiedi come mai non ha voluto ritoccare in chiave gourmet il risotto ai formaggi dolci e funghi di montagna, in carta dal 1963 ed eseguito esattamente come allora, ti dice – “Perché se una cosa è buona va lasciata così, chi se ne frega del gourmet!”
La rivoluzione che invoca Philippe, fatta di normalità, anche oggi, come allora quando la cantava Dalla, sembra davvero un’impresa eccezionale.

Questa frase, mutuata da Gualtiero Marchesi, riassume perfettamente il “Philippe pensiero”. Un uomo, prima che uno chef, di grande concretezza, ma anche di grande generosità. Le stelle, i riconoscimenti e le apparizioni televisive non gli hanno mai fatto perdere di vista la sua persona, le sue radici.