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Viviana Varese a Bologna: la caparbia sfida della diversità

La chef, che ha fatto dell'inclusione una sua battaglia, sarà ospite del festival del Gusto in programma il 5-6 novembre
3 minuti di lettura

Che tipo, Viviana Varese. Spiritosa. Basta leggere i nomi dei suoi piatti. “Non togliete l’osso a Mario” (ossobuco al barbecue con diaframma scottato, tartare di fassona, cipollotto, maionese di senape e neve all’aceto). “Mi sciolgo” (gnocchi di patate con tuorlo d’uovo, aceto balsamico, fonduta di Caciocavallo Podolico e tartufo bianco d’Alba). “La perfezione non esiste” (guscio di meringa con spuma di zabaglione, sorbetto al cacao e caffè, mandorle di Noto e pepe Timut). Ma è anche capace di essere durissima e dichiarare quello che pensa senza giri di parole: “L’alta cucina è misogina, bianca e razzista”. Lo dice lei che ha conquistato una splendente stella Michelin nel 2013 e puntava alla seconda quando è arrivato il Covid obbligandola a cucinare 200 coperti da sola con il fidato Roboqbo (apparecchio tuttofare per risotti, maionesi, fusioni di formaggi e addirittura tofu). Mentre la pandemia asfaltava ambizioni e bilanci, nel silenzio del lockdown, le idee germogliavano: un progetto di cucina e responsabilità sociale, una linea di spalmabili e marmellate in vetro, un ristorante in Sicilia.

Viviana Varese (Ph@ Azzurra Primavera)
Viviana Varese (Ph@ Azzurra Primavera) 

Capelli corti, anarchici, perennemente spettinati da un colpo di vento, classe 1974, VV gioca con le sue iniziali. Il ristorante Eataly Smeraldo si chiamava Alice, e poi è diventato “ViVa”, gustoso frazionamento del suo nome e cognome, ma c’è anche “Io sono ViVa, dolci e gelati”, gelateria artigianale con pasticceria, e ancora, da due anni, “W Villadorata Country Resort” a Noto (di moda come un tempo Pantelleria) con quella W che suggerisce due V affiancate e forse anche “Woman” e forse anche “vittoria”. È partita da lontano, sentendosi ed essendo diversa, “terrona, obesa, lesbica”, esclusa perché meridionale (nata a Salerno) già da bambina. È stata una lunga marcia.

 

A 13 anni lavora come pizzaiola nel locale dei genitori, “Il Girasole“, a Orio Litta (Lodi), e pesa 125 chili. A 18, operata allo stomaco, ne perde sessanta e trova il coraggio di dichiarare il suo amore a una ragazza danese che la trascina a Copenaghen (l’idea è aprire un ristorante) ma la lascia per un uomo (la fluidità funziona così).  Al funerale del padre, in chiesa, dice: mi piacciono le donne. E nessuno sembra sconvolto: la gente ha più buonsenso di quanto sembra. Ha una volontà irriducibile, un’enorme ambizione. Si procura uno stage da Gualtiero Marchesi a Erbusco pagando di tasca sua un milione di vecchie lire, si indebita (un miliardo) per tenere aperto “ll Girasole” che poi venderà. Nel 2007, con l’allora compagna Sandra Ciciriello, apre “Viviana Varese” a Milano. Verdure e pesce, il crudo e il cotto, il colore e il calore, la somma di ingredienti, l’imperfezione e l’istinto. Un po’ di Sud e molto altro. Qualcosa di nuovo, in una città che ha fame di novità e delle novità si stanca.

 

Ma in lei c’è uno spirito del tempo va oltre la nevrotica voglia di fare. La squadra di ragazze formata in collaborazione con Cadmi - Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano - per “Io sono ViVa” confeziona crostatine e racconta storie multietniche (l’unica dello staff con esperienze di pasticceria arriva a dal Kazakistan). Dalla piccola bottega di via Kramer escono migliaia di monoporzioni: la Bubble allo yogurt e yuzu, il Tiramisù su frolla, i finti mandarini con mousse agli agrumi, la Tarte al pistacchio e arancia simile a un cactus e 800 maritozzi a settimana. I 25mila euro del meritatissimo premio “Champion of change” di 50 Best servono a pagare i primi stipendi, mentre si allarga la famiglia dei gelati: Io sono pistacchio, Io sono nocciola, Io sono vaniglia. Ovvero: io sono Viviana Varese, e sono qui, pronta a rimboccarmi le maniche.

 

Questo è nel suo carattere. Con la nuova socia, la chef indiana Ritu Dalmia, ha creato “Spica”, giro del mondo a tavola, gioia e delirio: dim sum e bao, som tam (un’insalata thai alla papaia), bawmra (dal Myanmar) ramen, coca maiorchina, polpo alla galiziana, nachos e tortillas. Se avesse un motto sarebbe: “Mai fermarsi”. Ogni caduta, una rinascita. Il padre le diceva: “Tu ce la puoi fare” e l’ha preso in parola. Il Covid è stata l’occasione per ripensare ViVa: servizio snello, cotture più tradizionali. Via la plastica, meno basse temperature e sacchetti per il sottovuoto. La prossima sfida è la crisi energetica sulla quale tutti si arrovellano (abolire i brasati?). Di sicuro avrà un’idea. Come a Noto, con il menù “Fuoco”, forno a legna e barbecue dall’antipasto al dolce. Se le chiedi che cosa mangia, e intanto fantastichi su chissà quali incredibili ingredienti, risponde: comfort food, verdure, zuppe, patate lesse. Non è vegana, ma il 60 per cento dei suoi piatti è plant-based. Accoglie tutti: chi ha la pelle nera e chi vota Lega (ma a loro assicura che cambieranno idea). Si definisce un “catalizzatore di inclusione”. Lgbtq+ e non solo. Questa è fusion. In cucina e nella vita. ViVa.