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A Bologna sale in cattedra il modello vincente della ristorazione danese

L'impegno pubblico, la creatività dei privati: gli ingredienti del miracolo che ha trasformato in vent’anni il Paese scandinavo in una capitale mondiale della gastronomia
3 minuti di lettura

Un progetto visionario, l’impegno di istituzioni pubbliche e private, una pattuglia di giovani chef pronti a mettersi in discussione, un territorio con prodotti agricoli di qualità, la capacità di fare ricerca e innovazione in un campo difficile ma sensibile al nuovo come quello dell’enogastronomia e della ristorazione: questo il cocktail di elementi alla base del Miracolo Danese, un miracolo che ha trasformato in vent’anni Copenhagen (ma non solo: il fenomeno riguarda ormai tutto il Paese) in una capitale mondiale della gastronomia.

 

Agli inizi degli anni 2000 chi visitava la città del Tivoli e della Sirenetta ci andava per respirare i paesaggi nordici, rivivere il mondo dei vichinghi, magari per provare un pizzico di trasgressione in quartieri come Christiania. Certo non per fare scoperte gastronomiche, allora i migliori ristoranti della capitale erano sotto l’influenza delle Nouvelle Cuisine francese e tra i piatti locali c’erano l’arrosto di maiale con la salsa di prezzemolo e nel campo delle street-food gli smorrebrod, i sandwich di pane nero con l’aringa o il  salmone dei lavoratori del porto.  

La sala del Noma
La sala del Noma 

Poi nel 2004 l'imprenditore Claus Meyer riunisce 12 chef provenienti da Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda, Groenlandia, Isole Faroe e Finlandia. A rappresentare la Danimarca ci sono Erwin Lauterbach dello storico ristorante Lumskebugten, e René Redzepi del Noma, non ancora salito ai vertici internazionali. Insieme creano e firmano il manifesto della New Nordic Kitchen. Un manifesto in dieci punti che parlano di purezza, stagionalità, etica, salute, sostenibilità e qualità. Il manifesto rilancia anche antiche tecniche come la salamoia e la fermentazione che da sempre nelle campagne era utilizzate per conservare gli alimenti nel lungo inverno nordico.

Un piatto proposto dal Lumskebugten
Un piatto proposto dal Lumskebugten 

Il manifesto invita a utilizzare ingredienti locali e di stagione, rilanciando ad esempio il foraging, la raccolta di erbe selvatiche, che entrano sempre più spesso dei piatti degli chef. La nuova cucina nordica appare pura, fresca e semplice e soprattutto molto innovativa. E diventa ben presto una motivo di richiamo per frotte di giovani chef (ma non solo) con la voglia di capire cosa c’è dietro quella cucina di erbe, licheni e fermentazioni di cui Renè Redzepi è l’indiscusso profeta. Ma anche di sperimentare in prima persona quello che appare dopo il boom della cucina molecolare di Ferran Adrià, il nuovo verbo della ristorazione internazionale. E la Danimarca si riempie così di ragazzi che si fanno magari le ossa da Redzepi e poi aprono in proprio un bistrot, una caffetteria, un forno, un caseificio e giocano in prima persona la loro partita. Tanto che allievi di Redzepi come il nostro Christian Puglisi arrivano a realizzare in un caseificio danese, quella che Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, definì qualche anno fa la migliore mozzarella del mondo.

La "squadra" del Noma
La "squadra" del Noma 

A suggellare il successo in pochi anni, dal 2010 al 2021 i ristoranti stellati danesi triplicano, passando da 12 a 36. Ma non basta, la cucina danese fa man bassa di riconoscimenti internazionali: il Noma di René Redzepi conquista più volte il vertice nella classifica dei The World’s 50 best restaurant che nel 2022 vede al primo posto il Geranium di Rasmus Koefed. Koefed en passant è l’unico chef al mondo ad aver vinto il Bocuse d’oro, d’argento e di bronzo (le tra statuette fanno bella mostra di sé come fossero Oscar nella vetrinetta del ristorante al quarto piano dello stadio di Copenhagen) oltre ad aver allenato nelle ultime edizione le squadre danesi che si sono collocate ai primi posti della manifestazione lionese.

Lo staff del Geranium (@Claes Bech Poulsen)
Lo staff del Geranium (@Claes Bech Poulsen) 

Il boom della nuova cultura alimentare nordica non si limita però ai ristoranti della Capitale, investe lo street food, i mercati, le campagne di tutto il paese e porta tra l’altro alla nascita di festival e manifestazioni, dalla kermesse dei produttori di Aarhus al festival delle ostriche sull’isola di Romo, che attraggono sempre più turisti da tutto il mondo. Dietro il successo del fenomeno c’è un Paese dalla grande vocazione agricola senza dimenticare quella della pesca. E per capirlo basta fare un salto nello Jutland dove abbondano campi di orzo, frumento, segale e avena, ci sono allevamenti di maiali e sulla costa si pescano astici, aringhe e salmoni e si coltivano le ostriche..

La Norden Hus, dove è nato il manifesto della New Nordic Kitchen 
La Norden Hus, dove è nato il manifesto della New Nordic Kitchen  

A contribuire a questo “miracolo” anche decisioni politiche come quella che dal lontano 1987 stabilisce un controllo governativo sui prodotti biologici, la cui vendita si è moltiplicata negli ultimi anni, o quella più recente che chiede che il 60 per cento delle materie prime usate nelle cucine pubbliche siano biologiche. Si può riprodurre il modello danese? Certo i cambiamenti climatici, la crisi economica, il post pandemia rendono necessarie strategie che vadano sempre più nella direzione della sostenibilità. E il miracolo danese può essere un esempio da cui attingere elementi da adattare in situazioni diverse. Sapendo che decisiva, come hanno mostrato Mayer, Redzepi & C. è la capacità di avere una visione e soprattutto di riuscire a fare squadra.