È nato tra le quattro mura dello spogliatoio il nostro Mondiale. All’Olympiastadion di Berlino, il 9 luglio, poco dopo le 18. Mancavano un paio d’ore al fischio d’inizio, il silenzio e la concentrazione erano pazzeschi, quasi da dar fastidio, roba che non si respira per una partita normale. Allora si alza Gigi Buffon e fa: «Ragazzi, ma voi la Coppa del Mondo l’avete mai vista da vicino?». Materazzi scuote la testa, anche Totti è perplesso. L’unico che sorride è Cannavaro «Io in effetti le ho vinte praticamente tutte ma questa...». Ci guardiamo negli occhi. Una strana sensazione che ricordo come fosse ora. E Cannavaro, nel silenzio, si alza in piedi: «Questo vuol dire che pochi uomini al mondo hanno avuto e avranno la possibilità di sfiorarla. Allora ragazzi andiamo a prendercela e alziamola». Quelle parole hanno lasciato un segno profondo dentro di noi. Lì scattò qualcosa di speciale, capimmo che era il nostro giorno, perdere ci avrebbe lasciato un senso di vuoto per tutta la vita.
Con gli amici ma anche con gente che incontro, parlo spesso di quel giorno. Qualcuno mi chiede se sento davvero mio quel Mondiale. Non so se incavolarmi o ridere, alla fine scelgo la seconda strada. Ho giocato due partite e ho fatto parte di un gruppo pazzesco, unito come un pugno. Certo che quel Mondiale lo sento mio. Assolutamente. L’avevo vissuto passo dopo passo, senza farmi illusioni. Il primo passo era restare nel giro della nazionale, poi quello più importante era entrare nella lista dei convocati, a quel punto l’ambizione massima diventava scendere anche in campo con la maglia azzurra. Ho vissuto queste tre pagine della mia vita con un’emozione e una carica pazzesca. Mi sento un uomo e un giocatore fortunato.
Eppure niente lasciava presagire questa conclusione. Alla vigilia il caso-Calciopoli sembrava travolgere tutto, sono stati giorni molto duri. Soprattutto a Coverciano dove, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non si parlava di altro. Uno cercava di estraniarsi, ma come fa? Due persone, in quei momenti così travagliati, ci hanno dato la forza di non mollare: Fabio Cannavaro, il nostro capitano, e il mister Marcello Lippi. Credo che abbiano fatto un capolavoro, neanche un professore di psicologia poteva far meglio. Cannavaro quasi ci sorvegliava, nel senso buono. Voleva essere sicuro che tutti fossimo carichi, che niente creasse crepe dentro lo spogliatoio. E Lippi è stato il vero comandante di una barca che non voleva affondare, con le sue parole che ci infondevano sempre serenità. Vinto il Mondiale, tutti hanno iniziato a raccontare che Calciopoli ci aveva dato ancora più rabbia e forza, ma solo noi sappiamo quanto sia stato difficile non crollare. Anche perché avevamo il mondo contro, non solo l’opinione pubblica italiana.
Come se non bastasse, a poche ore dalla sofferta vittoria agli ottavi contro l’Australia, arrivò anche la notizia del tentativo di suicidio di Gianluca Pessotto. Ricordo un gran caos. Qualcuno aveva ricevuto un sms poi iniziarono a piovere telefonate. Ma non si riusciva a capire bene cosa fosse successo. Del Piero, Zambrotta e Ciro Ferrara, che a quei tempi era uno dei collaboratori di Lippi, lasciarono il ritiro per andare da Gianluca, quel giorno nessuno riusciva a parlare di calcio. A cena tirammo fuori tanti aneddoti di Pessotto, e ogni volta ti assaliva la domanda «ma come è possibile?». Anche perché pochi giorni prima era venuto a trovarci in ritiro, ad Amburgo se non sbaglio, prima della partita contro la Repubblica Ceca. Insieme cercammo anche un modo per mandargli un segnale, così alla fine della partita contro l’Ucraina ci sembrò bello sventolare il tricolore con la scritta “Pessottino siamo con te”. Comunque, anche in quei giorni la vera forza ce la regalò Marcello Lippi. Uno sguardo, una parola, una confidenza. Non so davvero come avremmo fatto senza di lui.
È strano eppure a distanza di anni continuiamo a raccontare di quel mondiale parlando poco di calcio. Ma non la considero una bestemmia. Eravamo una squadra forte, ma soprattutto eravamo un gruppo imbattibile. I successi sono nati fuori dal campo. Trovando poi terreno fertile in un’Italia schierata bene, molto quadrata, con le idee sempre chiare. E con il livello della fiducia in noi stessi che si impennò dopo la vittoria nel girone di qualificazione. Tutte le partite sono state delle battaglie. È incredibile quanto si rivelò alto il livello degli avversari. Ricordo ad esempio gli Stati Uniti: ci aspettavamo una squadra abbordabile, invece quelli correvano e giocavano il pallone alla grande.
Se devo essere sincero, l’emozione più forte l’ho provata in semifinale. Partita pazzesca, a Dortmund, in uno stadio con 80mila persone, tutte convinte che la Germania ci avrebbe stritolato. Ma noi avevamo dentro una forza e un orgoglio che non appartenevano ai tedeschi. E neanche alla Francia. A ripensare adesso ai calci di rigore della finale, mi manca ancora il fiato. Ma quella Coppa alla fine l’abbiamo vinta noi. Con merito. Quando l’ho presa in mano a fine partita, sono andato da Buffon e gli ho detto «hai sentito quanto pesa?». E lì mi sono davvero sentito l’uomo più felice del mondo.©RIPRODUZIONE RISERVATA