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Quanto pesa l'assenza di un padre sulle vite dei figli

Quanto pesa l'assenza di un padre sulle vite dei figli

L’assenza dei papà, impegnati molto nel lavoro e poco con i figli. Ne parla Massimiliano Pappalardo, autore di “Che fine hai fatto, papà?”

3 minuti di lettura

È da un po’ che non scrivo di padri, lo so, chiedo scusa. E così quando mi è arrivata una copia in anteprima di "Che fine hai fatto, papa?" (Feltrinelli, Urrà), ho pensato che leggerlo e scriverne potesse essere un buon modo per rimediare.
Tra i padri più famosi di questi primi mesi del 2023 c’è il politico democratico Jimmy Gomez, che il mese scorso si è presentato al Congresso con il figlio Hodge nel marsupio. Non che quel giorno la tata lo avesse bidonato all’ultimo momento, Jimmy il bimbo l’ha portato per mostrarlo, per renderlo il simbolo della sua missione: l’istituzione del Congressional Dads Caucus, una sorta di gruppo parlamentare che si impegna a sensibilizzare i colleghi con l’obiettivo di far passare leggi che parifichino i diritti dei padri a quelli delle madri. Di più, ad amplificare i sostegni delle famiglie americane in generale. Ho pensato a Gomez quando mi sono trovata tra le mani una copia di "Che fine hai fatto, papa?" (Feltrinelli, Urrà) di Massimiliano Pappalardo che non è uno psicologo e nemmeno un pedagogo, ma un filosofo del lavoro, autore di diversi saggi e canzoni. Mi ha incuriosito molto, e allora l’ho chiamato.

Partiamo dall’inizio: che c’entra un filosofo del lavoro con la paternità?
“C’entra eccome, avendo avuto l’opportunità di dirigere per anni due dei più importanti campus universitari – prima al Politecnico e poi al San Raffaele – mi sono confrontato con molti giovani, i famigerati Millennial e quelli della Generazione Z, per capirci. Ragazze e ragazzi meravigliosi, ma estremamente fragili. È così che ho capito che, per sostenerli, bisognava tornare ai padri”.

E cosa le hanno detto questi ragazzi?
“Mi hanno raccontato spesso che erano figli di genitori carrieristi e che, una volta entrati in azienda, li rivedevano nei loro capi e sentivano il bisogno di scappare. La genitorialità è estremamente connessa al grande fenomeno delle dimissioni, quello che gli anglosassoni definiscono Great Resignation”

Quali sono le conseguenze di crescere con un padre troppo assente?
“L’anaffettività, verso i genitori ma anche verso i propri pari. E poi, semplificando al massimo, possiamo dire che tendono a verificarsi due reazioni: Papà tu non mi guardavi e io provo a farmi guardare, oppure mi restringo”.

Sì, ma non saranno mica tutti carrieristi questi padri, attorno a me ne vedo molti di presenti e affettuosi.
“È vero, negli ultimi anni le cose sono cambiate anche in meglio. Siamo passati dal maschio alfa patriarcale a quello che cambia i pannolini, il mammo – che è un termine tremendo, lo so, ma lo uso per capirsi. Il problema è che quando le rivoluzioni accadono troppo velocemente, possono generare storture”.

Scusi, ma qual è il problema di un uomo che cambia i pannolini?
“Un rischio, per esempio, è quello di diventare tutto papà e poco compagno. Gli uomini devono imparare a pluralizzare i ruoli”.

Di che padri avrebbero bisogno, dunque, i nostri figli?
“Di uomini equilibrati, capaci di dosare disponibilità emotiva e senso del limite, tenerezza affettuosa e consistenza educativa. Non più solo padri della norma preoccupati di dare sicurezza alla famiglia – come quelli da cui sono nati – ma anche sensibili. In pratica il papà affettivo dovrebbe iniziare a soppiantare quello meramente emotivo, il papà autorevole quello autoritario, il papà responsabile, quello in carriera, il papà normativo quello solo permissivo”.

Ne libro parla spesso di dimissioni dal ruolo paterno…
“Esatto, per esempio, un papà amico è un uomo che si è dimesso dal ruolo paterno perché ha rinunciato alla sua autorevolezza”.

E le madri che ruolo hanno in tutto questo?
“Perché possa esserci un nuovo padre, c’è bisogno anche di una nuova madre. Lavorando, le donne cedono agli uomini più spazio nelle cure familiari, permettendogli di assumersi più responsabilità. Si attiva così un circolo virtuoso, nel quale i due genitori iniziano un percorso basato sulla stima reciproca, rispettando però le reciproche differenze”.

Questa che descrive, però, mi sembra una situazione molto ideale…
“Non esistono regole ferree o ricette, nel mio libro io propongo alcune ipotesi di cambiamento ma posso dire che alla base di tutto c’è l’ascolto. Quello vero. Reciproco”.

Oltre ad aver incontrato molti figli, lei si è confrontato anche con molti padri dentro e fuori alla aziende: dal suo osservatorio particolare, si è fatto un’idea su quali siano i migliori?
“Milano rimane un paradigma essenziale: al lavoro trovi 5 generazioni in azienda contemporaneamente, ma i papà che mi hanno colpito di più sono quelli che hanno tra i 28 e i 34 anni. Questi sono dei buoni padri perché si sono beccati le crisi economiche 2001 e 2008 che gli hanno mostrato il grande bluf del mito del carrierismo, ma sono anche quelli che, durante il Covid, hanno sperimentato e apprezzato una vicinanza che prima sarebbe stata impensabile”.

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