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Un anno di guerra: la lezione di orgoglio delle donne ucraine

Una ragazza ucraina in piazza con la bandiera del suo Paese. Foto A. Widak/Getty
Una ragazza ucraina in piazza con la bandiera del suo Paese. Foto A. Widak/Getty 
Il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. Celebriamo questo triste anniversario con chi è stato sul campo e ha visto e parlato con tante sopravvissute
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Una, accampata alla stazione centrale di Varsavia, aveva due valigie, uno zaino e uno specchietto da trucco. Ripassava il rossetto, seduta per terra nel caos insopportabile di quei giorni di marzo, quando il grande atrio esplodeva di donne e bambini, cani, gatti, fagotti e coperte. «Mi trucco perché non voglio darla vinta ai russi. Mi hanno bombardato la casa, e adesso mi vede così, come una zingara. Lo sono. Loro hanno deciso di occupare la mia città, loro mi hanno ridotta così, e per fortuna non mi hanno ammazzata». 
La città era Kharkiv, e certo i russi se ne fregavano dell’orgoglio di una agente immobiliare senza più ufficio né appartamento, e ricordando le sue macerie, lì si era messa a piangere. Ma è stato un attimo. L’orgoglio aiuta a sopportare molte cose, e nel caso di questa ormai ex benestante, persino a fronteggiare il futuro. Una profuga ucraina come migliaia, viste in mille foto e video, le facce stravolte dalla paura e da viaggi estenuanti, fino alla frontiera polacca, per poi disperdersi in tutta Europa, e anche più in là. Come lei, milioni di donne ci hanno dato la lezione dell’orgoglio. Quelle che sono ancora tra noi – noi che viviamo distrattamente la nostra pace – e quelle che hanno deciso di tornare, rischiando la vita ogni giorno di questi 365 passati, per un marito o per i figli maschi maggiorenni che non possono espatriare, da genitori troppo anziani per scappare, o solo a casa, sempre che esista ancora.
Un’altra, contadina al mercato di Kramatorsk, raccontava che sì, avrebbe anche potuto andarsene, ma non sapeva come fare con le vacche, che amava come figlie e «se le abbandono, di sicuro impazziscono. Poi i soldati potrebbero mangiarsele, e io non lo sopporterei». Era una donna giovane e forte, con le unghie nere di terra, vendeva patate e cipolle, e la sera leggeva un libro. «Quale? Non me lo ricordo. Leggo senza capire niente perché il fronte è vicino, sentiamo solo il bum-bum dei mortai».
Un’altra, incontrata a Bucha, nella casetta in fondo all’orto, lei e il suo cane. La casa principale era senz’acqua ed elettricità, ma quella degli attrezzi aveva una grande stufa a legna, e Maria viveva lì, con l’acqua piovana raccolta dalla grondaia. Al di là della staccionata, c’era il boschetto dove i russi occupanti avevano piazzato i Grad, e con quelli tiravano su Irpin. Li sentiva ridere, a turno finito. Li ha sentiti uccidere un ragazzo vicino di casa. È vissuta un mese sperando che non saltassero dentro, e aveva imbavagliato il cane perché non abbaiasse, terrorizzato dai colpi. E se fossero entrati? «Mi avrebbero violentata. Sono vecchia, ma qui lo hanno fatto anche alle donne anziane».
Tutto questo lo abbiamo dimenticato, o quasi. Esistono donne così, che ancora affrontano il peggio. Che coraggio ci vuole, a cantare una ninna nanna a un bambino che non riesce a dormire per il rumore della guerra. E a preparare un pranzo decente senza acqua, gas, al buio. A restare forti, a piangere di nascosto, semmai. Anna, architetta a Kiev, raccontava lo shock di non poter ricaricare i cellulari, o restare offline per giorni. «Siamo tornati nel medioevo, e parlo della capitale. All’inizio abbiamo cenato alla luce delle candele, e ho pensato, beh, è romantico», ma è durato solo una sera.