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Foto di Laura Hennessy/Gallery Stock
Foto di Laura Hennessy/Gallery Stock 
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Nel vero senso della parola, intervista a Massimo Bray

Proteggere la lingua italiana, adattarla al mondo che cambia, usarla – oggi più che mai – per difendere diritti e promuovere libertà: è la missione di Enciclopedia Treccani, come spiega il direttore generale

3 minuti di lettura

Le parole sono importanti. Soprattutto in questo momento. Ne è convinto Massimo Bray, 63 anni, direttore generale dell’Enciclopedia Italiana – fondata da Giovanni Treccani e Giovanni Gentile nel 1925 – ed ex ministro per i Beni culturali, che a un mese dalla pubblicazione di un nuovo vocabolario ricco di novità, invoca «la virtù del pensiero elaborato o il silenzio della riflessione» di fronte a un diffuso linguaggio «violento, sguaiato, demagogico, razzista, sessista o solo banalmente seduttivo». Perché in un’epoca caratterizzata da un dispendio vorticoso di parole, si ha quasi la sensazione che queste rischino di perdere senso. A meno di non tornare a dar loro «il giusto significato e a impiegarle in modo preciso, corretto, pulito».

Quali evoluzioni della lingua avete riscontrato, in particolare, negli ultimi anni?
«Sicuramente uno dei temi è la polarizzazione. Si va verso gli estremi: da una parte con l’aggressività e dall’altra con la volontà di affermare lo spirito critico, contrapponendo tesi diverse. Poi c’è il linguaggio d’odio, con un utilizzo delle parole offensivo, ostile, denigratorio per colpire gruppi di persone o singoli individui, perché hanno tesi differenti dalle proprie o appartengono a categorie stigmatizzate senza alcun fondamento: uno dei nostri impegni è proprio quello di contrastarlo».
Con il nuovo vocabolario, Treccani prende una posizione forte sui diritti delle donne.
«Sì. Lo presenteremo alla riapertura delle scuole e ha l’obiettivo di contrastare le discriminazioni di genere. Per esempio abbiamo eliminato in modo sistematico gli stereotipi, in forza dei quali se si tratta di “stirare” o “cucinare” a compiere l’azione negli esempi era sempre una donna; mentre a “dirigere” un’impresa, puntualmente, un uomo. Crediamo che sia urgente superare questo linguaggio, perché le parole possono contribuire a cambiare la mentalità. La scelta è stata chiara anche rispetto al femminile dei nomi, soprattutto quelli di professione e di carica: so bene che molti ancora faticano ad accettare il cambiamento, ma è importante che soprattutto alle nuove generazioni termini come sindaca, architetta, ingegnera o ministra risultino familiari».
Un bel salto dall’ultimo vocabolario, di appena tre anni fa.
«Il linguaggio è in continua mutazione. Il nostro Osservatorio lo monitora ogni giorno, pubblicando le forme che cambiano sul portale, a disposizione di tutti. Quindi – dopo 3, 4 o 5 anni dall’ultima edizione – il nuovo vocabolario “fissa” le evoluzioni riscontrate. Questo è il modo con il quale l’Istituto ha inteso il rapporto fra carta e digitale fin dall’inizio, dal 1995, da quando esiste treccani.it».
Che rapporto hanno i più giovani con la lingua italiana?
«Di grande attenzione, di affezione quasi sentimentale. Di recente il lavoro che facciamo nelle scuole ci ha portati all’istituto Marisa Bellisario di Inzago, dove studentesse e studenti hanno proposto parole nuove che rivelano il loro stato d’animo. Mi sono piaciute molto “autentialità”, che allude al rispetto delle culture differenti dalla propria. Ed “empatarietà”, che unisce i concetti di empatia e solidarietà». 
Dobbiamo alle ultime generazioni anche termini nuovi e ben precisi, come body shaming.
«Verissimo, è una loro chiara esigenza. Quanto al tema delle parole straniere: un arricchimento da altre lingue c’è sempre stato ed è giusto così. Anche noi abbiamo esportato molto, prima soprattutto dal vocabolario della lirica e poi da quello dell’enogastronomia con termini come pizza, espresso, parmigiano».
Quale dev’essere il limite dell’importazione linguistica?
«Non si tratta di avere un atteggiamento protezionistico, ma di prestare attenzione per non rischiare di impoverire la propria lingua. Ne parlavo pochi giorni fa con un caporedattore a proposito di “spoilerare”, che oggi significa anticipare la trama di un film, di un racconto o di una serie televisiva soprattutto in rete. Ebbene, la nostra posizione è molto chiara: se esiste un’alternativa italiana non serve ricorrere a un anglicismo. Spoilerare, per esempio, può essere tradotto con “annunciare” o “anticipare”».
Di questi tempi, quali sono le parole più amate dagli italiani?
«In generale, emergono “memoria”, legata anche alla storia familiare. E “verità”, che si contrappone al tema delle fake news. Non è un caso che la definizione anglosassone, quando fu pubblicata per la prima volta da un importante dizionario inglese, fosse accompagnata proprio dal concetto di post-verità. Ecco, dopo la grande diffusione del digitale oggi c’è una forte richiesta di professionisti che si pongano da garanti contro le false informazioni. Nonostante perfino alcuni esponenti della classe dirigente, non molto tempo fa, sostenessero che quelli del giornalista e dell’editore fossero mestieri superati dalla “disintermediazione”».
Fra gli oltre 100mila lemmi e accezioni del nuovo vocabolario, quanti andrebbero dimenticati?
«Nessuno. Nemmeno i più dolorosi come Olocausto, perché è giusto che i ragazzi sappiano quello che è successo e che la memoria si leghi ad alcune parole. L’importante, sempre, è contestualizzarle».