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un drink con d

Due donne nel collettivo che cura il Padiglione Italia alla Biennale: "Siamo le prime, ma la nostra voce non ha mai avuto bisogno di un riconoscimento di genere"

I curatori del padiglione Italia 
I curatori del padiglione Italia  
Veronica Caprino e Claudia Mainardi sono due dei cinque architetti del collettivo Fosbury. Sono loro a curare il Padiglione Italia in Biennale, a Venezia. Con idee controcorrente, etiche ed ecologiche
6 minuti di lettura

Veronica Caprino e Claudia Mainardi, che con i coetanei Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni e Nicola Campri, formano il collettivo Fosbury Architecture, sono le prime donne, in quasi mezzo secolo di storia della Biennale di Architettura di Venezia, a curare il Padiglione Italia. Non c’è da stupirsi che Gae Aulenti dicesse: “L’architetto è un mestiere da uomini, ma io ho sempre fatto finta di nulla”. Claudia e Veronica hanno 34 e 35 anni e non sopportano di essere chiamate giovani: «È quasi umiliante. In tutta Europa sei giovane fino a 27 anni, quando smettono di farti lo sconto per l’ingresso ai musei». Si sono trasferite in Laguna perché la 18ª Biennale di Architettura, The Laboratory of Future, ha inaugurato sabato 20 maggio e rimarrà aperta fino al 26 novembre. Al sole di Campo Santo Stefano, sedute ai tavolini di Paolin davanti a uno spritz al Select (vermut con rabarbaro e bacche di ginepro), parliamo di un tabù culturale infranto. E di quel Padiglione Italia, costato 800mila euro – sostenuto dal main sponsor banca Ifis e dallo sponsor Bottega Veneta – che supporta il public program, accessibile a tutti e gratuitamente, in calendario all’interno del Teatrino in collaborazione con Palazzo Grassi. «Gae Aulenti aveva ragione, numeri alla mano gli architetti maschi sono molti di più. Nel nostro gruppo eravamo prima due di otto, poi in tre sono andati per la loro strada, e ora siamo due di cinque. Ma la nostra voce non ha mai avuto bisogno di un riconoscimento di genere. Non ci siamo mai sentite minoranza. Non sempre è così. Siamo convinte che il fare sia più forte del discutere».

Il nome del vostro collettivo arriva da Dick Fosbury, l’americano che nel 1968 rivoluzionò il salto in alto, superando l’asta di schiena. Anche voi avete l’ambizione di guardare le cose in modo diverso? 
«Festeggiamo i nostri 10 anni di attività. Siamo tutti compagni di università, figli del Politecnico di Milano. Il nostro è un collettivo, una piattaforma di scambio, il nostro dopolavoro. Per molto tempo siamo stati divisi. Veronica e Alessandro a Milano. Nicola un po’ a Milano e poi ad Amburgo. Claudia e Giacomo a Rotterdam. Da sempre interagiamo via Skype. Abbiamo sentito l’esigenza di ritrovarci in uno spazio con persone che stimi e rispetti per mettere in campo dei progetti».

Fosbury è morto lo scorso 12 marzo.
«E ci sono arrivati un sacco di messaggi di condoglianze. Noi gli abbiamo dedicato il catalogo della mostra».

Che si intitola: Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri. 
«Questa però è una citazione del filosofo Aldous Axley. Noi ci ribelliamo all’idea che l’architetto sia un autore, un demiurgo che opera al di sopra di tutto. Invece deve sentire una collaborazione orizzontale tra colleghi ma anche interdisciplinare». 

Il Padiglione Italia è il vostro balzo rovesciato?
«Decisamente sì. È qualcosa di completamente diverso rispetto al passato. Non è un’esibizione, ma un’azione. Un luogo di sintesi e un collettore per tutti i nove progetti che abbiamo avviato sul territorio italiano. L’idea è mostrare come grandi temi sociali, che faticano a trovare soluzioni a livello globale, possano invece essere affrontati nel locale.  Spesso per fare una mostra di architettura bisogna legarsi a dei media: un modellino, foto, altre forme di rappresentazione. Non si può prendere un edificio e portarlo dentro uno spazio espositivo. Noi abbiamo pensato avesse più senso creare una relazione con le comunità, provare a inserirsi nel contesto e lasciare qualcosa. Accendere una miccia». 

E dove avete dato fuoco alle polveri?
«In nove luoghi dove l’architettura ha interagito con degli advisor, dei “potenziatori” per uscire dalla disciplina e misurarsi con altro. Più che considerare l’architettura come manufatto, proviamo a valutare lo spazio come un elemento in cui inserirsi». 

È complicato: raccontate come?
«Per esempio Post Disaster è un collettivo che lavora a Taranto da 4 anni e si occupa di “attivare” dei tetti della città vecchia durante la stagione estiva. Li trasformano in palcoscenici temporanei, dai quali si ha una ricognizione immediata dello stato della città e su come si convive con il disastro dell’Ilva. Loro hanno lavorato con le performer Silvia Calderoni e Ilenia Caleo. Nella Baia di Ieranto, oasi naturalistica del Fai nei pressi di Napoli, gli architetti Alessandro Bava e Fabrizio Ballabio hanno invece promosso la riconciliazione con l’ambiente insieme a Terraforma Festival. A Trieste, Giuditta Vendrame e Ana Shametaj hanno affrontato la coesistenza multiculturale lungo il confine italo-sloveno. A Ripa Teatina, gli HPO con la scrittrice Claudia Durastanti, coinvolgeranno la comunità nel recupero di un gigantesco ospedale, opera incompiuta da 50 anni. A Marghera, i Parasite 2.0, con Elia Fornari di Brain Dead, parleranno di inclusione sociale e attività ricreative. Nell’ecosistema dello stagno di Cabras, una delle zone umide più grandi d’Europa, il gruppo Lemonot e Roberto Flore, lavorano sulla filiera della bottarga, per capire come l’architettura si interfaccia con il tema della transizione alimentare. A Librino, quartiere di Catania, Studio Ossidiana collaborerà con l’artista visiva Adelita Husni Bey. A Belmonte Calabro, il collettivo Orizzontale con Bruno Zamborlin ragiona sul superamento del divario digitale. Infine, fra Prato e Pistoia, i progettisti (ab)Normal e CAPTCHA in collaborazione con Emilio Vavarella investigheranno i limiti della tutela del paesaggio e della sua riproducibilità».

Cosa vorreste che le persone che visiteranno il Padiglione recepissero?
«Sarebbe un successo se venisse compresa l’intenzione che il Padiglione è lì e anche altrove. Il Padiglione si svuota per diffondere la mostra in tutta Italia, serve come una mappa di una geografia inedita che svela condizioni che sono anche al margine. Le Tese delle Vergini sono il luogo che ospita Padiglione Italia: la prima è vuota, perché era importante espandere i confini delle risorse economiche a disposizione svuotando uno spazio che è meraviglioso così. Nella seconda ci sono nuove opere che riprendono gli interventi locali. Che raccontiamo anche attraverso due grandi video. Vorremmo che le persone avessero poi voglia di andare in giro per l’Italia a conoscerli».

Si chiama Ilaria Lamera la studentessa del Politecnico che per prima ha piantato una tenda in piazza Leonardo da Vinci per protestare contro il caro affitti di Milano. È una pratica architettonica anche la sua?
«Ha fatto bene: Milano è una città respingente. Moltissimi non la scelgono più. Una stanza costa 800 euro. Nessuno del Fosbury è di Milano. Siamo stati pendolari, quando ci siamo iscritte noi costava 400. È una follia. La città la devi poter vivere. Invece si avverte una sensazione elitaria. L’uscita a cena è un lusso. Al margine c’è qualcosa, ma non sei più a Milano. Se devo vivere a 15 chilometri e sentirmi escluso è inutile. Prima almeno c’erano le sacche: Isola, Nolo, Sarpi. Rifugi in cui era tutto più accessibile. Ora resta Corvetto».

Missione classica degli architetti: ripensare la città. Vale anche per voi? 
«Agli architetti lontani dall’establishment non è permesso mettere le mani sulla città, non capiterà mai. Certo, se le città hanno problemi, qualche colpa sarà anche degli architetti. Ma la politica, nella sua assenza di volontà urbanistica, ne ha di più. Perché è della politica la decisione finali sugli spazi. Quanti urbanisti conosciamo? Sono i Comuni che operano». 

L’avversario n°1 è sempre il geometra?
«In realtà si sono moltiplicati. Basta pensare a tutti i vincoli che ci sono. Tutto è intoccabile, anche i luoghi che hanno una storia breve. Allora meglio dedicarsi alle opere incompiute, così nessuno ti rompe le scatole».

L’espressione estetica dell’architettura piace più di ogni altra cosa? 
«Arriva prima. L’architettura mainstream non è che non ci interessi, ma è necessario un cambiamento di rotta. Sentiamo l’urgenza di una dimensione etica. Due architetti francesi, Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal, hanno vinto il Pritker Price 2021 (l’Oscar dell’architettura, ndr), lasciando una piazza così com’era e spiegando che non c’era bisogno di aggiungere altro. Il resto sarebbe servito solo ad appagare un palato e un ego». 

Progettare inquina?
«Il riuso è fondamentale. Noi non abbiamo mai disegnato qualcosa ex-novo. Lavoriamo con Meta, uno spazio alla Bovisa, che crede nel riuso come forma d’arte. Raccoglie e lava materiali di allestimenti, sfilate, set, mostre, installazioni. Poi li vende perché possano avere nuove opportunità. Nel 2022, alla Galleria Magazin di Vienna, abbiamo allestito Characters, una mostra monografica dei nostri lavori. Abbiamo utilizzato una pelliccia viola, già utilizzata da Prada per una sfilata del 2021, per creare un ambiente di resistenza. Ora quella pelliccia andrà in mostra a Barcellona».

Quindi?
«Se un materiale è inquinante, ma viene più e più volte rigenerato, la prospettiva cambia. Non si deve per forza rinunciare alle opportunità che l’architettura dà. Il bello non è il nuovo. Bisogna sempre capire se è davvero necessario costruire. Se si può scegliere di salvare l’esistente è meglio. Poi il confronto dovrebbe essere sui materiali. Anche noi abbiamo una fascinazione per il cemento, ma bisogna confrontare quanto un godimento personale possa valere rispetto al bene collettivo». 

Quando negli eco-resort del Sud Tirolo l’architetto non mette le prese di corrente vicino al comodino perché ricaricare i cellulari vicino al letto fa male, cosa pensate?
«Che in aeroporto non si trovano mai le prese pubbliche. Architettura è vita: attaccati il cellulare dove vuoi». 

E quando sentite parlare del nuovo progetto per il Ponte sullo Stretto?
Veronica ride e Claudia alza gli occhi al cielo, ndr. «Nel nostro catalogo delle opere pubbliche incompiute c’è anche l’incipit dei lavori per l’aggancio vicino Reggio Calabria. Ci basta quello».  

Per la prima volta nella storia del Padiglione Italia avete iniziato a comunicare via Instagram sul profilo @spaziale23 e su spaziale2023.it. Perché?
«Lo strumento di comunicazione canonico, il solco nel quale siamo cresciuti, è il disegno. All’inizio della nostra attività eravamo molto affezionati al disegno in grande formato. Tavole di 3 metri. Impossibili da comunicare su Instagram. Ci siamo domandati come avrebbe fatto la gente a capire il nostro lavoro e abbiamo aperto le porte via web e social network in grande anticipo». 

Fosbury Architecture, sovvertitori professionisti dell’ordine costituito, come siete arrivati a vincere il concorso della Biennale di Venezia?
«Il 9 febbraio del 2022 ci arriva una mail, con un vago riferimento al Governo. Poche righe, non firmate, che indicavano di prendere visione dell’allegato. Per tutto il giorno lo abbiamo ignorato. La sera abbiamo cercato di capire e avevamo pensato inizialmente di non farlo. Ci eravamo stancati dei concorsi. Portano via energie e non è detto che funzionino, per troppe variabili. Ma, quella stessa sera abbiamo deciso partecipanti, titolo, tema. Dal giorno dopo abbiamo iniziato a produrre».

Poi?
«Consegna il 31 marzo. A giugno nulla. Ansia totale. Non puoi dire nulla a nessuno. Cercavamo di capire chi avesse partecipato, facevamo i turni per chiamare il Ministero con voci diverse. Il 19 luglio, quando abbiamo smesso di pensarci, convinti che chi ci doveva lavorare avesse già iniziato, è arrivata la comunicazione: non ci credevamo, avevamo vinto». 

Questa curatela cambierà la vostra vita professionale?
«È certamente un successo, ma non abbiamo capito se sarà un trampolino. Certo, ci speriamo».