Che gli amori falliscano è un’invenzione di questi anni. Gli amori trattati come società, come colpi non andati a segno. Amare, fallire, amare peggio. Fin quando i matrimoni sono stati indissolubili, anche l’amore godeva di una sua placida eternità. Forse gli amori finivano, ma lentamente e senza troppo fastidio. Come si spegne una candela. Ma il fallimento è diverso. È uno sconquasso violento, rumoroso. Prevede responsabilità e rancori, produce in noi quel senso di colpa, quella frustrazione che ci coglie quando capiamo di non essere più in grado di far funzionare niente. Guai a un amore che fallisce, perché il suo fallire è anche il nostro.
Ma davvero l’amore è qualcosa che deve funzionare? E quand’è che smette di funzionare, e quindi fallisce? Ce l’abbiamo una risposta, l’abbiamo capito qual è il pomerio, oltrepassato il quale non c’è verso di rientrare dentro, di considerare ancora l’amore un meccanismo attivo. Secondo noi l’amore fallisce quando non si scopa più. Anzi, meglio: quando finisce il desiderio. La mancanza di sesso, lo scemare del desiderio trasformano un amore felice e florido in un relitto da trascinarsi dietro a fatica. Questo pensiamo. Non accade in un giorno. Si va avanti a lungo facendo affidamento sui guizzi, una notte sfrenata, un’inopinata capriola sul divano. Ma è come la batteria del telefonino. I primi tempi ci fai un giorno intero, poi sempre meno. Anche se lo ricarichi, non dura. Finisce che dopo un paio d’ore si spegne, come il desiderio. È qualcosa che ha a che fare con la memoria, una memoria che si scolorisce e perde forza.
Ho rivisto un film, che la prima volta mi era piaciuto poco. Troppo involuto, sfiancante. Tutto un avanti e indietro nel tempo e nel cuore dei protagonisti, una specie di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (il nostro Se mi lasci ti cancello) ma senza la precisione dell’idea. Anche il film di Michel Gondry parlava di ricordi, di un’invenzione che serviva a cancellare nella testa ogni particolare riguardasse la persona dalla quale ci si era separati. Per non dover soffrire. E anche Ricordi, il film di Valerio Mieli, racconta la storia di un incontro. Un ragazzo malinconico, un Luca Marinelli ineccepibile e favoloso come sempre, e una ragazza allegra. Allegra ma non scema, sottolinea lui con stupore dopo il loro incontro. Perché, come tutti i depressi, scambia l’invidia per saggezza e pensa che una vita senza rovello sia prerogativa degli sciocchi. Lei, Linda Caridi, è invece una di quelle fanciulle incantevoli nate dall’unione di Ariel ed Eros, con gli occhi pieni di stelle sempre spalancati. Ma dal momento che non è affatto scema, trasalisce quando lui, ombroso e irresistibile, dopo aver fatto l’amore con lei la prima volta dice: «Non sarà mai più così bello, lo sai?». E infatti lei risponde, titubante, «No, non lo so». E lui, implacabile: «Finiamola qui, prima che la poesia diventi pappa, col tempo diventa tutto qualunque. Così resterà tutto una meraviglia».
Lasciamo stare cosa accade alla fine del film, dissento dalla possibilità che tanta insipienza sentimentale produca, dai e dai, un rabberciato volersi bene o peggio un volersi bene temprato dalla fatica. Mi sta a cuore invece l’enormità di quel «non sarà mai più così bello». Se l’amore fallisce quando finisce il desiderio e poi non si scopa più, allora ha ragione Luca Marinelli: finiamola qui, subito, prima che inizi. Perché non c’è alcun dubbio che quella cosa accadrà. Anzi, quella cosa comincia ad accadere più o meno dopo la prima volta. Questa prospettiva economica e abilista è una trappola feroce che ci siamo costruiti. Un altro lavoro da fare, un’altra meraviglia da tenere accesa. Se potessi scegliere, io me li prenderei già falliti, gli amori. Scartati, ormai incapaci di incanto, sfiatati. Come vecchi cani salvati dal canile, che finalmente sprofondati nel tuo divano ti inondano di gratitudine e stupore.
Parole

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Avrò cura di te: non sarà mai cosi bello
di Elena Stancanelli, Illustrazione di Rebecca Clarke