Ho avuto un’infanzia relativamente felice, diciamo felice, e deve essere per questo che per tutto il resto della vita mi sono sentita dire: tanto tu te la cavi, posso andare, tanto sei una persona forte – non come quella, che è stata da piccola deprivata degli affetti. Maltrattata. Guarda come è fragile. Quella sì che ha bisogno di me, tu no, tu ce la fai da sola.
Ci penso e ci ripenso, perché in effetti mi pare una trappola. Ma non ho ancora finito di capire come sia successo, dove fosse il bivio. Una vita non basta a capire: dove abbia attecchito questa presunta forza – che altro non è, alla fine, che un’armatura. Come tutti, anche io mi difendo. C’è chi si difende esibendo ingenuità, vulnerabilità, questo è chiaro che funziona, è statistica, e c’è invece chi si arrangia coi muscoli del collo perché ha imparato a fare così. Tutti, penso, abbiamo dovuto far fronte a quel che la vita da bambini ci metteva di fronte: non c’era alternativa. Tutti abbiamo trovato una via d’uscita e, se abbiamo visto che funzionava, abbiamo mantenuto la rotta. Mi domando cosa sia un’infanzia felice, me lo domando ora che le immagini dei bambini sui treni coi loro fagotti, bambini che salutano con le mani sui finestrini che si appannano di lacrime e di fiati, ci segnalano con precisione l’entità del danno possibile. Un padre assente, molesto, violento è peggio di un padre morto in guerra quando avevi sei anni? Chi lo sa, chiedere agli orfani è inutile. Tutti rimpiangono chi manca.
Una madre insensibile, sorda ai tuoi bisogni, alcolizzata perché tradita, a sua volta invisibile, infelice, è peggio che una madre lontana un oceano? L’amore perfetto è nell’assenza, mi ha detto una volta tanti anni fa la madre di un ragazzo sequestrato e ucciso dalla dittatura argentina. Mi ha detto, quella donna formidabile: se fosse rimasto con me, se fosse stato e fosse cresciuto qui avremmo di certo litigato al pranzo di Natale, non sarei forse andata d’accordo con mia nuora e lei con me, avrei dovuto fingere, lei pure. Mi avrebbe mandato i nipoti a salutarmi per il mio compleanno con una sonatina al piano, con una poesia dicendo loro andate: è vostro dovere, è la nonna. Andate e poi domani potrete uscire fino a tardi. Ma invece no, non c’è stato niente di questo. Mio figlio è scomparso che aveva 23 anni e lo amo di un amore perfetto: l’illusione di quel che poteva essere.
Certo la mia generazione, in Occidente in Italia, non ha vissuto le lacerazioni di una guerra, di una dittatura. Non conosce le bombe, le fughe, l’orfanità. Quindi, grosso modo, è stata felice. Tutta quanta, se l’è cavata con le domestiche ingiurie dei caratteri e della sorte. Qualche botta, forse. Qualche inconfessabile sopruso, può darsi. Ma niente che ci abbia impedito di farcela comunque, continuando a telefonare a casa per le feste e dire come stai – persino a genitori detestati e colpevoli.
Scrivo questo non so bene perché, forse perché mi è sembrato grave che quando ero stanca nelle salite in montagna nessuno mi prendesse in braccio e che un adulto, certamente un genitore, mi abbia detto quel giorno: anche io sono stanco eppure vedi, nessuno mi prende in braccio, dunque cammina. Poi torna la guerra, bisogna riconsiderare i torti. La perfezione d’amore è nell’assenza.
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La perfezione dell'assenza
di Concita De Gregorio, Illustrazione di Rebecca Clarke