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È chiaro che siamo noi
Ricordi di infanzia: le merendine della vergogna
È chiaro che siamo noi

Ricordi di infanzia: le merendine della vergogna

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La vergogna è sincera. Alla vergogna non puoi mentire. Se ti vergogni arrossisci, annaspi e poi sprofondi. La vergogna ti restituisce l’esatta misura delle tua miseria. Quante volte mi è capitato? Molte. La prima volta forse fu in una sauna, a sei anni. I corpi erano nudi e il turbamento a cui non sapevo dare né senso né nome mi rapì per poi atterrirmi. Ci penso ancora, anche a distanza di quarant’anni perché i ricordi tornano a farti visita soprattutto quando non vuoi. 
Le edicole estive di un tempo, nelle località di mare, erano simili a un bazar mediorientale. All’epoca si stampava di tutto e ciò che non entrava nelle vetrine giaceva in ceste che ricordavano la pesca dei miracoli di un luna park. I fumetti dell’anno precedente, inguainati in plastica, erano venduti sottocosto a pacchi di cinque. Per ordinare il flusso sarebbero servite torme di vigilantes e il solo sguardo del padrone del chiosco orbato da un via vai di bagnanti, ragazzini e madri non poteva bastare. 
Gino, l’edicolante, di me si fidava. Mi salutava sempre con un sorriso aperto, mi regalava pacchetti di figurine e mi voleva bene. Ciò nondiméno, profittando della confusione, lo ingannai. Fu un blitz premeditato, senza neanche la scusa della cleptomania. Mi accordai con il mio amico Francesco: «Tu chiedigli di farti vedere quel libro enorme della Disney sul lato dell’edicola e mentre lui apre il lucchetto della vetrata io mi avvicino alla cesta, prendo un pacco di fumetti, lo metto nella borsa e mi allontano». Così feci e dopo la sbornia della fuga e la divisione del bottino (due numeri di Tiramolla a lui, due Geppo e un Intrepido a me che avevo assunto il rischio maggiore) mi vergognai profondamente. Avevo tradito la fiducia di Gino a da quel giorno non fu più la stessa cosa. Non si era accorto di nulla, ma io ero diventato più sfuggente. Non riuscivo a guardarlo negli occhi perché  non è necessario che la vergogna diventi colpa conclamata per ferirti o farti sentire smascherato. La vergogna ha molte facce e differenti ragioni. Può dipendere da un gesto riprovevole, da una mancanza di coraggio o, al contrario, da un atto ardito di cui compiacersi per un solo fatale istante. Da ragazzino ero grasso come un barile. Mangiavo tutto il giorno e avevo il mio pusher nel droghiere Virgilio Virgili sito in Via Anapo, a Roma. Lì ero di casa. Con Virgilio condividevamo il tifo per la stessa squadra e una simpatia istintiva che si tramutava in stozze di untissima pizza romana, panini e biscotti appena sfornati che contribuivano notevolmente al mio peso forma. Se mancava qualcosa all’ultimo momento mia madre mi mandava a fare la spesa a pochi passi da casa e io tornavo con un latte d’emergenza, un filone di pane o una bottiglia d’olio. Quando decisi di alzare il tiro, esagerai. Scrissi un foglietto di mio pugno e mi presentai alle tre del pomeriggio, in un orario incongruo, con una lista di sole merendine. «Virglio ciao, dovrei prendere queste». La lista comprendeva tre pacchi di Girelle, tre di  Buondì Motta, tre di Fiesta e – avevo pensato con arguzia – un paio di detersivi per occultare il misfatto. Sotto avevo imitato la firma materna e avevo forse insistito troppo ripetendo «la mamma mi ha detto di prendere le merendine» almeno quattro o cinque volte.


Virgilio preparò le buste. Tornai a casa in preda all’ebbrezza e divorai tutto o quasi. La telefonata del signor Virgili arrivò la mattina dopo. Non per volontà di delazione, ma per preoccupazione e per sincero affetto. Venni scoperto e mi vergognai fino al punto di non passare più per un intero anno davanti al suo negozio. Superavo l’isolato osservando da lontano il mio parco giochi dal quale ero stato espulso per mia esclusiva responsabilità. Un tormento, anche sentimentale. Passarono i mesi e a Natale arrivò una lettera di Virgilio. Era scritta a mano e diretta a me. Mi diceva «torna, è stata una sciocchezza, ci manca il tuo sorriso». Vicino alla firma c’era una ditata di olio. L’aveva scritta dopo aver toccato la pizza. Mi commossi e provai una vergogna diversa. Veniva da un’altra parte di me. Aveva un’altra natura. Quella che ci aggredisce quando sappiamo di aver perso le parole, per troppo tempo, guardando da vicino la luce accecante della nostra stessa inadeguatezza.