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AVRÒ CURA DI TE
Una vita che non è la sua
AVRÒ CURA DI TE

Una vita che non è la sua

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Ammar non si chiama Ammar. E la vita che ha vissuto per anni non era la sua. Era un incubo, condiviso con milioni di persone ammassate in Libia, in fuga dalle guerre, la fame, persecuzioni politiche del loro Paese di origine. Ammar aveva solo sedici anni quando ha scoperto di essere un nemico del governo di al-Sisi. Viene convocato dal preside, insieme ai suoi due migliori amici. Per colpa di qualche discussione ad alta voce in classe sono accusati di tramare contro il governo del loro paese, l’Egitto. Nei giorni successivi prima l’uno poi l’altro, i suoi amici spariscono, portati via nella notte da poliziotti armati di pistole. Nessuno avrà più notizie di quei due adolescenti e si diffonde la peggiore delle voci: che siano stati trascinati in quelle prigioni sotterranee che sono come l’inferno. Torture, fame, morte. Là dentro, all’insaputa del mondo, accade l’indicibile. Lo zio di Ammar, poliziotto al Cairo, capisce che non c’è tempo da perdere, il ragazzo deve scappare. Ma Ammar non ha il passaporto perché ha solo sedici anni e in Egitto servono tre anni di servizio militare per diventare maggiorenne e avere riconosciuta l’identità legalmente. Così, col denaro della famiglia e qualche conoscenza, Ammar viene nascosto, infilato in un taxi e affidato a qualcuno che dovrebbe portarlo in Libia. Nessuno ha idea di quello che gli sarebbe toccato. Mesi, anni di tentativi falliti di attraversare il mare o semplicemente di essere lasciato libero di tornare indietro. Impossibile. La Libia non è un Paese, è una gigantesca prigione dove si viene trattenuti il più a lungo possibile, perché ogni volta che la fuga fallisce i carcerieri possono chiedere altro denaro alle loro vittime e alle famiglie. 
Come un mostruoso gioco dell’oca, dove ogni volta che ci si ritrova sulla casella di partenza si è costretti a ripagare. Immaginate famiglie, bambini, immaginate donne che, oltre a tutto il resto, vengono stuprate fino alla pazzia, fino a che i loro corpi non sono più che stracci luridi, inservibili, grumi di dolore. Alcune si uccidono, altre muoiono, altre ancora ce la fanno e arrivano di qua, col loro carico di orrore. Anche Ammar, che non si chiama Ammar, ce l’ha fatta e adesso vive in Olanda e studia ingegneria all’Università. La sua storia la racconta Caterina Bonvicini in un libro intitolato Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie (Einaudi). La scrittrice ha partecipato – insieme a Valerio Nicolosi autore delle fotografie e di un saggio che chiude il libro – ad alcune missioni Sar (Search and Rescue) con le organizzazioni che fanno salvataggio in mare, ha tenuto tra le braccia persone terrorizzate e ferite, coperte dal gasolio delle taniche, infreddolite, affamate. Ha ascoltato i loro racconti e i racconti dei loro salvatori, ragazzi e ragazze che dedicano la loro giovinezza a riparare all’orrore, disobbedendo a leggi idiote che pretenderebbero di lasciare affogare in mare uomini, donne e bambini. È bello l’aggettivo “umanitario”, anche se viene sempre accostato a qualcosa di spaventoso. I corridoi umanitari, per esempio, attraverso i quali si dovrebbero mettere in salvo le persone dai disastri, guerre, fughe disperate. Le navi umanitarie navigano nel nostro mare cariche di sofferenze, corpi piagati e silenziosi che indicano la nostra disumanità. Tra le forme di amore, la cura degli altri, degli sconosciuti è la più difficile, è complicato farsi carico di un sofferenza senza nome, pretendere di darle ascolto, farle posto nella nostra esistenza. Il libro di Caterina Bonvicini ha il pregio, tra gli altri, di avvicinare questi sconosciuti, farci sentire il loro odore, la loro rabbia ma anche la loro riconoscenza. Mentre tremiamo di fronte alle immagini che arrivano dall’Ucraina, anziché farneticare di attori che impersonano i morti, di bombardamenti ricreati come set cinematografici, ascoltiamo chi si prende cura dei più disperati, umilmente, con spirito umanitario.  n