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È CHIARO CHE SIAMO NOI
Il tempo per le stelle
È CHIARO CHE SIAMO NOI

Il tempo per le stelle

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Si affacciava Marzo e noi pensavamo già ad Aprile. Poi arrivava il mese più crudele e volavamo con il pensiero più in là, ai mesi estivi, inseguendo una luce, una sosta, la rigenerazione. Da bambini le vacanze erano uno spazio definito. Il luogo della festa, dell’ozio, del sonno, delle concessioni. Iniziavano a giugno e si concludevano a settembre. Novanta giorni su 360. Un quarto dell’anno. Un’enormità da Paese dei balocchi. Facevamo volare in aria gli zaini e ci preparavamo alla partenza. Venivamo accorpati in gruppi eterogenei, in base ai desideri degli adulti o a banali esigenze familiari. Nonni, fratelli e cugini in prima istanza o ancora le temibili comitive di amici la cui molestia, in omaggio all’empirismo, avremmo sperimentato sul campo. Erano spesso maleducati da competizione, gente che per lo più svuotava il frigo e lasciava i piatti sporchi. Esibizionisti in pareo. Truffatori pronti a barare tanto al tavolo della vita, quanto a Monopoli.

Noi bambini non li potevamo scegliere, così come non si scelgono i fratelli, i genitori e i luoghi di villeggiatura. A casa l’ostilità verso la psicanalisi era superata soltanto da quella riservata alla montagna. Disprezzo sordo, spesso immotivato e compiaciuto per la prima. Assoluta indifferenza per la seconda. «Scomoda d’inverno, nemica d’estate» decretavano i vecchi nel loro pensatoio improvvisato per poi dare la stura a raccontini più o meno diffamatori di spedizioni infernali che conoscevamo a memoria. Chi sceglieva la montagna era quasi sicuramente un cretino e così si andava al mare o in certe case di campagna invariabilmente presentate come l’Eden da una propaganda mai doma. «Guardate che delizia, staremo benissimo» diceva mio padre di fronte a certe pietraie assolate senza luce elettrica e un esercito di insetti alla porta. Il generatore, in mezzo al campo, forniva luce e acqua per un paio d’ore al giorno e muniti di candele, la sera, mentre li sentivamo squittire entusiasti al centro del giardino «ma non sentite che arietta!» li maledicevamo perlustrando da irriducibili bestie metropolitane gli angoli nascosti dietro al letto per cacciare zanzare, gechi e a volte peggio. Che si fosse sulla terraferma o su un’isola sperduta eravamo circondati da un vuoto di senso. Gli orari erano elastici, ma a fine giornata crollare era un sollievo. Da figli di genitori separati, di estati ne vivevamo più d’una. Lanciati come una moneta sulle direttrici sghembe degli amori perduti immaginavamo i nostri, e di rotta in rotta, di incontro in incontro, puntavamo sempre a fissare l’attimo per sempre. Tendevamo all’eternità. L’età? Lei era di Brescia, Benevento o Piacenza? Aveva solo tredici anni? Ci avremmo pensato dopo. Dopo le promesse e i baci rubati, dopo il tramonto, dopo tutto. 
In valigia avevamo manuali che avremmo aperto soltanto a pochi giorni dal rientro e molto tempo libero per guardare le stelle. Se ci annoiavamo venivamo incitati: «Fantastico, annoiatevi ancora un pò» e di giorno, dopo aver inventato battaglie con nemici immaginari o dato vita a campionati di calcio in cui interpretavamo anche i radiocronisti, ci lanciavamo da uno scoglio galleggiando il più a lungo possibile. Le mani si squamavano, ma aspettavamo fino allo stremo perché sapevamo che la lotta per risalire e salvare ginocchia e fianchi era una questione di fortuna, di onde e sapienza da acquisire giorno dopo giorno. In autunno saremmo stati robinsoniani se solo non desiderassimo ardentemente un cambio di scenario per tornare nel mondo civilizzato. Quando si verificava, ogni cosa si illuminava di senso. Sul mare Adriatico, di un verde bottiglia orientato al grigiastro, ci accoglievano lunghe file di ombrelloni, sandwich-man intenti ad arare la spiaggia con bombe alla crema e pizzette e voci irradiate da altoparlanti, pronte a far ricongiungere madri e bambini improvvidamente scivolati di cento metri a destra o a sinistra. Non c’era mai il dubbio sul lieto fine perché nel recinto invisibile della spiaggia, custodita da bagnini issati su seggiolini che ricordavano quello dell’arbitro di tennis, non c’era pericolo di finire fuori campo. Godere, senza sospettare che dimenticarsi di sé e degli altri fosse un lusso, somiglia a un’occasione persa. Non pensiamo più «che meraviglia l’estate», ma «oddio, l’estate». L’orizzonte è chiuso, i giorni incastrati, il telefono non smette di squillare. Siamo cresciuti. Peccato.