La mia bella e anziana madre, di soli dieci anni maggiore di Nanni Moretti e dunque come sempre le dico “magnifica ottantenne”, ogni volta che viene a trovarmi passa desolata ore e ore nel giardino a diserbare, reinvasare e mi domanda mesta come mai fate morire tutto, come mai non vi curate dei fiori. Ha tutte le ragioni. Moltissimi anni fa, quando i figli erano bimbi, decidemmo di trasferirci in una casa assai piccola per noi tanti che siamo, davvero angusta, ma con un giardinetto: dove loro avrebbero potuto andare in triciclo, giocare con le pistole a pallini senza spaccare i vetri, respirare quel po’ di aria che a Roma possa dirsi ossigenata e soprattutto stare fuori. Dai, ragazzi, andate fuori a giocare. Al principio fummo solerti giardinieri. Piantammo un albicocco e un ciliegio, che negli anni hanno portato colonie di simpaticissimi e interessanti insetti da osservare. Nacquero nespoli dai noccioli sputati, che preservammo come doni a dispetto dei vicini che dicevano: infestano. Mettemmo persino due amache, così che l’intero condominio potesse affacciarsi a guardarci con maggior diletto. Si andava nei vivai, di tanto in tanto, a rinnovare il bosso che moriva per via di certi parassiti, ma quello nuovo non crebbe e poco a poco, impercettibilmente, si rinunciò.
I figli avevano smesso di giocare: i maggiori e i loro amici ci andavano a fumare per non fare puzza in casa, dicevano, e per altre ragioni che non indagammo mai. È rimasto infine, il giardino, un retrobottega abbandonato. Ci si sono accatastate biciclette e monopattini, vecchi sci Rossignol, sulle scavatrici gialle di plastica è cresciuta l’edera. Quando c’era mio padre, e veniva, faceva proselitismo col figlio di mezzo suo assoluto simile e gli insegnava i nomi latini delle piante. Poi anche quel tempo è passato.
In pandemia, all’improvviso, il giardinetto ha ritrovato gloria. Ci siamo tutti, figli adulti compresi, riversati lì. A dipingere ferri arrugginiti, a stuccare panche di legno marcite, a sradicare ortiche con l’accortezza di trattenere il respiro, perché dice che se non respiri non pungono. È tornato bellissimo. Poi la reclusione è finita e la natura ha ripreso il sopravvento, mentre gli umani di nuovo si disinteressavano di lei. È impressionante come i fichi crescano dentro le case abbandonate, a farci caso. Adesso, ogni tanto, arriva mia madre: mette i guanti, scuote la testa, va dal fioraio del mercato a comprare ciclamini e gli dice sa, mia figlia ha da fare, povera cara. Riparte lasciando bordure, che mi guardano quando mi affaccio alla finestra e mi dicono ti prego: un sorso d’acqua.
Scendo, allora. Sento la responsabilità dei padri che seminano incompresi: sempre meno figlia, sempre più madre presto nonna. Anch’io ho letto Voltaire, da ragazza, ma quel Candido che ripara nella cura dei fiori non lo capivo, mi pareva una rinuncia. Soprattutto, direi, mi sono sentita sempre gramigna in casa d’altri: ero io l’intrusa infestante da eliminare. Ora che il tempo cambia di nuovo, diversa si fa l’idea di tempo, ho forse capito, spero. Che vale la pena stare coi fiori, non è una rinuncia.
CASAMATTA

CASAMATTA
Gramigna in casa d'altri
Quando ho capito che valeva la pena stare con i fiori.
di Concita De Gregorio, Illustrazione di Rebecca Clarke