Da qualche giorno stanno girando un film sotto casa mia. Hanno occupato spazio, parcheggiato camion, a intervalli bloccano la strada. Forse qualcuno si sarà lamentato, ma in generale mi sembra tutti la stiamo prendendo come una festa. Ci fermiamo a sbirciare quello che accade, commentiamo.
Deve essere un film ambientato negli anni Settanta a giudicare dagli abiti degli attori e delle comparse. Quelle automobili che non vedevamo più da decenni ci inteneriscono, qualcuno azzarda un ricordo. Tutti i tecnici, le maestranze, tutti quegli apparati elettronici necessari a fare il cinema sono atterrati come marziani nel nostro quartiere. I senzatetto, ai quali è stato temporaneamente occupato l’alloggio, scroccano sigarette e barcollano, aspettando la fine della giornata per recuperare i loro giacigli. Ma non sembrano offesi. Piuttosto, per la loro competenza di queste strade che presidiano da anni, sembrano le divinità da ingraziarsi. Il mio cane non suscita diffidenza, le strade sono state ripulite, i monopattini non sfrecciano contromano, quando finisce la giornata i bar si riempiono di quei marziani che arruffano un po’ l’antropologia tradizionale dei dintorni. Mi incanto a pensare come sarebbero più belle le città se questa atmosfera festosa fosse endemica, se facessero il cinema sempre e ovunque.
Lo ammetto, ho un problema con la routine, mi sento soffocare al terzo giorno in cui mi rendo conto che sto compiendo gli stessi gesti nello stesso ordine. Ma non perché non creda al valore costruttivo delle abitudini, al contrario: perché i gesti quando si svuotano non diventano abitudini ma catene, corazze, gabbie.
Prima che ne arrivi un’altra vale la pena capire cosa ci ha lasciato la pandemia di Covid: una gran quantità di lievito madre, ma soprattutto l’orrore del domicilio, secondo le parole di Baudelaire, e l’incubo della monotonia. Giornate che volavano via (o non passavano mai) identiche le une alle altre. Due pensieri se non di morte almeno di reclusione, ai quali ognuno di noi ha risposto in maniera un po’ goffa, o sguaiata, o timida. Per quanta voglia ci sia venuta di andar via, di scegliere zone del mondo incontaminate, fuggire lo smog e il rumore, molti di noi – quasi tutti – hanno vite complicate, figli, lavori, legami, che li costringono a restare dove sono. Città che ormai ci angosciano, che ci sembrano l’emblema di quel carcere, nel quale abbiamo vissuto, nel quale temiamo di essere rinchiusi. Forse per questo mi incanto davanti a quel set, e trasformo lo scompiglio in allegria. E mi chiedo come fare a trasferire nei giorni quel piccolo incanto che ci consola del traffico, della fatica, delle file e della burocrazia.
Mi chiedo: dove sono finiti i ragazzi e le ragazze in queste città angosciate? Non è compito loro l’allegria, non dovrebbero essere loro a regalare scompiglio? Saprebbero smontare la nostra lagna e farne scherzi, loro che hanno ancora l’energia per prendere le giornate e rivoltarle a testa in giù come un paio di calzoni, come un film. Ferma col mio cane davanti alle transenne che mi dividono dalla scena che stanno girando, come un umarell davanti a una giostra, mi dico che se ne sono andati perché tutto quello che stiamo facendo e dicendo è sorvegliare e punire. Non me, non gli adulti, non chi non paga le tasse o pretende di curarmi senza credere nella medicina e nella scienza, ma i ragazzi e le ragazze, incolpevoli. Che anche per questo preferiscono le loro stanze alle piazze. Il problema non è la bassa natalità, ma il paradosso per cui mentre tutto sembra all’altezza dello sguardo degli adolescenti niente è davvero a loro disposizione, tantomeno la città. È questo che ci fa diventare vecchi e sterili. Mentre mi allontano vorrei gridare riprendetevela! Giocate, divertitevi, sbagliate ma fatelo in strada, perché senza di voi queste città sono troppo tristi.
AVRÒ CURA DI TE

AVRÒ CURA DI TE
Sognando scompiglio
Ma dove sono finiti i ragazzi e le ragazze?
di Elena Stancanelli, Illustrazione di Rebecca Clarke